Anni in testacoda

Chi conosce Massimo Cecchini sa che da quando sa leggere non ha fatto altro che dragare a più non posso lo sconfinato mare della letteratura. Ha letto di tutto, classici e contemporanei, e continua a farlo. Questo suo amore lo ha nutrito da sempre con passione e con prepotenza, come succede in ogni situazione alla quale si sappia di non potersi negare. 

Il punto è che per lui la letteratura è la fonte della massima comprensione dell’umano, cioè il luogo della massima disposizione ad accogliere ed elaborare l’incertezza, le crisi, gli interrogativi, i dolori, i disincanti. 

Lo ha detto Catullo come lo ha detto Shakespeare, che siamo tutti dei corpi con dentro dei sogni. Ma quei sogni, oltre che dentro di noi, sono anche fuori di noi, traggono voce anche da qualche altra parte, cioè toccano il mistero che ci ha resi senzienti e pensanti (inizia qui il nostro rapporto con il sacro), capaci di sognare, amare, sperare, odiare, mentire. 

Un critico importante, Arnaldo Colasanti, in un suo bel libro, Rosebud, ricorda che, grazie ai romanzi, raffiniamo il nostro modo di pensare. È su questa linea del pensare la vita che si muove anche il nostro Cecchini. 

Lo ha fatto per esempio con il suo romanzo Il bambino (Neri Pozza), che non per niente racconta una storia difficile e dura di disabilità, e lo fa ora con il poemetto Anni in testacoda (Fallone Editore). 

Anzitutto questo libro ci pone di fronte a una questione di giustizia verso una parola: adolescenza. La usiamo spesso o quasi sempre in tono di biasimo, a segnalare un atteggiamento adolescenziale, una scrittura adolescenziale, una reazione adolescenziale, un modo di pensare adolescenziale. 

Se è senz’altro appropriato usare il lessico in questa direzione, è anche vero che, al netto di tutte le sue caratteristiche più goffe e avventate, quell’età ha un pregio: è un’età che, come nessun’altra, riesce a non essere ipocrita. È una stagione che non mente perché rivendica il diritto di parlare la lingua della vita nel modo più schietto e diretto. 

In Anni in testacoda troviamo un’uguale schiettezza e un’uguale voglia di libertà nel parlare della vita, solo che la cosa avviene attraverso la dimensione della maturità. 

La libertà della giovinezza transita nella sincerità asciutta della maturità e si fa scrittura pacata e meditante, lontana da ogni infingimento e preoccupata solo di appartenersi, di riconoscersi in sé stessa, come una lettera cui affidare non un ritratto o un autoritratto, ma una qualche immagine della vita. 

Nei primi versi abbiamo già il tono aperto e pulito dell’intero poemetto:

“Avviso ai viaggiatori: / sono in transito. / Scarrozzo / col respiro grosso / fino alla coda / degli ultimi vagoni, / nascosto tra coloro / a cui non spetta più / l’orizzonte del locomotore. / Non è un gran male. / Trapassando i vetri / ho visto scolorire il desiderio / e lievitare il sentimento. / Confido adesso nell’ultima stazione / finalmente senza croci addosso. / Dicono ci attenda amore / liberato da aggettivi, / a girotondo. / Dicono sia bello, / quasi perfetto. / Attendo diffidente, / a volo basso. / Mi basterebbe la certezza /che a terra / sia sciolto dai rimpianti / per il poco fatto bene / e per il troppo irrimediabile”. 

Non ci sono sapori inquieti, in questi versi: semmai ve ne sono di amari; e vi si sente un che di pacificato, di riconciliato, come per una distensione: che però non è quella del riposo, ma quella di un diverso pensarsi. Non siamo al rendiconto, siamo alla descrizione di un approdo: quale che sia stata la rotta, quale che sia stata la navigazione, quali che siano stati i mari, si è ora a un punto nuovo. Nuovo perché diverso, e diverso perché più aperto, più onnicomprensivo rispetto alle cose e ai giorni. 

Simone Gambacorta

1 Commento su "Anni in testacoda"

  1. … mi piacerebbe contare una ventina di seri commenti
    (come succede per i grandi interessi di Sulmona).

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