Cercarsela

Fra le vittime della violenza umana le donne, da che è mondo, anzi da prima, già negli olimpi dei miti arcaici, sono nei più tristi primati.

Bersaglio di maschi padroni, padri, fratelli, compagni, potenti, sacerdoti inquisitori, giudici di morali di ogni tempo, mostri, demoni e perfino deità, il sesso debole ha sempre attizzato gli istinti più bestiali del maschio, evidentemente incline a farne scempio giustificandosene con fantasie di ogni genere.

Non che i miti e i testi cosiddetti sacri di ogni religione – nessuna esclusa –vengano in soccorso al gentilsesso, anzi probabilmente perché scritti da maschi raccontano di profeti, messia e divinità rigorosamente maschie: la donna passa per essere il più delle volte la gallinella di turno, istigatrice dei desideri più perversi e meno consoni alla morale corrente, generalmente avversa.

Vittime predilette insieme ad agnelli e conigli dei sacrifici che si debbono per ingraziarsi forze soprannaturali ma anche mostri di ogni sorta dalle schizzinose pretese di verginelle, nei casi migliori il femmineo resta colpevole aizzatore di peccati originali che ci trasciniamo fino all’eternità, oppure, all’inverso, oggetto-premio ultraterreno per maschi probi e proni alla legge del dio macho.

Scandaloso è il corpo muliebre non solo migliaia di anni fa, non solo nei popoli che lo pretendono imbustato a lutto dalla testa ai piedi, infibulato contro ogni ipotesi di piacere, contrito in una vita oggettivamente di merda, ma anche oggi e qui, nell’evolutissimo occidente, dove una coscia, un decoltè o una spalla scoperta si considerano tranci irrispettosi, un capezzolo un peccato da censurare perfino sul social degli scandali, delle esaltazioni fasciste e delle violenze più indicibili. O da sanzionare su una spiaggia pubblica, indecente visione per minori che potrebbero evidentemente scoprirlo anzi tempo, a meno che  non servano a reclamizzare un prodotto o ad attirare, come un’insegna al neon, pubblico da curiosità pruriginose.

 

A volerne fare psicologia da quattro soldi più che di invidia del pene, che si direbbe favoletta messa in giro da maschietti infoiati da tendenze altre, sarebbe il caso di parlare di invidia della vagina, che dalla notte dei tempi si è pretesa intonsa come una confezione di conserva sottovuoto che non celi sotto il tappo il velenoso botulino. Cosicchè a svitare quel tappo a pressione, per restare nella metafora culinaria, il maschio alfa, evidentemente represso, impotente e dagli scarsi mezzi, prova un godimento esaltante, che trova giustificazione negli angoli più remoti della coscienza ancestrale, educata a favolette moralistiche piuttosto che al rispetto, alla dignità e al sano e condiviso piacere di natura.

 

A leggere i dati statistici vengono i brividi: 6 milioni nel nostro paese le donne che hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale. 2.500 solo nel 2017, un migliaio in meno del primato di due anni fa. Se a queste aggiungiamo le violenze verbali, lo stalking anonimo, il mobbing nel lavoro, le tastatine furtive pubbliche e private, le minacce e dio solo sa che altro, i numeri diventano da capogiro.

 

Che il 40% delle violenze siano state commesse da stranieri verso loro connazionali o nostre, fermo restando la preoccupazione che il dato deve comunque destare, dovrebbe allarmarci più per la restante parte, quel 60% che non è l’eccezione ma la regola, l’orribile primato del Prima Gli Italiani. Regola che invece, al contrario della sua pur esecrabile eccezione, non fa notizia, relegata nei trafiletti dell’ultima di cronaca quotidiana. Già, quotidiana, perché di violenze se ne contano quasi 8 al giorno,  di cui 4 consumate fra le mura domestiche (senza tenere conto di quanto non cade nel silenzio impaurito e nell’omertà generale).

Fa riflettere e inorridire più di quel 40% di bruti stranieri quest’omertà tutta nostrana, il mostruoso pregiudizio che sbotta nel “se l’è cercata”, come è stato per la dodicenne calabrese violentata per anni da quattro figli di buona famiglia, o la quindicenne sorrentina, sentenziate “troppo movimentata” dal costume paesano.

Già, cercarsela. Quasi una forma di giustificazione per i poveri maschi impossibilitati a trattenere le impellenze ormonali come la pisciatina notturna una prostata infiammata, attenuante per il povero Adamo di turno stuzzicato dalla quella mela fin troppo rossa con la quale la novella Eva, ninfomane in cerca di violenze, l’ha insidiato.

 

E’ un fatto di cultura, purtroppo e ancora una volta. Da un canto Il Giornale che aizza gli istinti razzisti soffermandosi sui dettagli pruriginosi dello stupro bestiale che fanno audience, dall’altro l’indifferenza per le violenze “ordinarie” e nazionali, il silenzio omertoso delle mura domestiche e delle chiuse comunità di provincia, dove si nascondono i veri mostri.

E’ un fatto di cultura se l’ipocrisia collettiva rifugge l’educazione al rispetto, al gioco condiviso dei sensi che non conosce età, morale e divieti, che sa esorcizzare e sublimare gli istinti umani più segreti, che cercano altrimenti soddisfazione e ragione nella violenza e nella sopraffazione.

Che a insozzare il sesso con la violenza è solo l’impotenza, della mente e della sua risibile appendice.

 

 

Antonio Pizzola

 

 

 

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