
Esce in questi giorni Il corpo disabitato, il nuovo libro di poesie di Daniele Cavicchia, il suo sesto pubblicato da Passigli. Il libro è anzitutto la conferma di una coerenza di pronuncia che rende Cavicchia un autore sempre fortemente riconoscibile, per molti aspetti inconfondibile.
Ora più che ieri non si può allora che concordare con Paolo Lagazzi: “Ci sono ancora in Italia poeti che, lontano da tutti i clamori della kermesse letteraria, proseguono la loro ricerca con un’ostinata fedeltà alle proprie ragioni d’ombra, alla fatale segretezza del loro dolore: uno di essi, tra i più schivi e intensi, si chiama Daniele Cavicchia”.
Il corpo disabitato è aperto da una prefazione di Raffaele Manica il quale osserva che “uno dei modi in cui si manifesta e prende forma la poesia” di Cavicchia “sta nel porsi domande radicali quasi senza volerne aver l’aria”; verissimo com’è verissimo quel che il critico (con la finezza che gli appartiene) osserva circa la scorsoia “attitudine inquieta verso le cose della vita” del nostro poeta.
In effetti per Cavicchia le parole sono cave, sono parole di bambù: e poiché cave, non scavano, ma accolgono, ospitano, si rendono distretti di scorrimento, di passaggio, di pulsazione: distretti di suono.
La parola è il flauto del canto e del disincanto, dell’amore e del lutto, del sogno e dell’incubo. Nel cavo delle parole la vita porge in palmo di mano l’estasi immonda del dolore, ed è lo stesso palmo dello schiaffo, del bere, della carità, del coprirsi gli occhi, dello zittirsi.
La poesia di Cavicchia è la continua allusione a sé stessa, un’allusione sempre in differita rispetto a uno spostamento-smottamento, a unevanescenza, a un dissolvimento.
È una parola postuma, la parola del postumo e del sopravvissuto: a Micol, a Gabriella, il dittico del suo sterminato addio.
Ma tutto obbedisce a un paradigma invariabile: la rarefazione del significato porta a un’intensificazione del senso. Per un riflesso occulto, tutto ciò che è diminuzione, nei versi di Cavicchia finisce per essere accrescimento.
Quanto più si sfuma nel visionario, quanto più si varca l’indecifrato, quanto più il disossato e labiale amnioteatro delle sue entità irragiunte e disapparenti si fa ellittico, tanto più il tormento delle sue voci, e il rebus onirico delle sue scene, acquistano palpabilità.
Ogni sottrazione s’attesta come un’aggiunta di pervasività enigmatica, ma l’allusione di Cavicchia non è mai completamente data, perché la sua parola ambisce a dissolversi.
Nel deporsi quale segno e nello sperdersi quale sogno, incorpora il moto di una domanda essenziale e drammatica: dove va a finire quello che scompare? Questa domanda unifica tutti i suoi libri.
“Voi non esistete!, disse la donna coprendosi il capo, / siete la vostra negazione! E la nostra”.
Sono versi de La solitudine del fuoco (2016) e già a partire da essi si può arrivare – come lungo un ponte – ad alcuni fra i versi più potenti del bellissimo Il corpo disabitato, che è la fase rem (il punto di massima intensità) della scrittura di Cavicchia.
“Non sapevi che il patto fosse stabilito / il nome lo scopri dopo / così la data che ti annovera tra i presenti. / Già, quel patto non sottoscritto, / il nome che non hai scelto, / la fine che non conosci / di quel patto subisci il frattempo / ignorando l’inizio e il rantolo della fine”.
Percepirsi esistenti obbliga a strutturare un’esitazione che si ripete nel grande labirinto di ogni inconsapevolezza e di tutti i nostri fantasmi.
Simone Gambacorta
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