Due nomi in un addio

Hanno un’intensità calma e chiara, i versi che Elena Mearini destina alla sua silloge intitolata A molti giorni da ieri e pubblicata dall’editore Marco Saya.

Si presentano lievi, di una lievità che ci si consegna come fresca di un qualche vicinissimo alleggerimento, come spazzolata da un qualche vento, e sgravata da uno stato più che da un peso. Si ha l’impressione, pressoché sempre, di qualcosa di appena avvenuto ed emerso.

È probabilmente per questo che danno l’idea – i versi – di essere sempre su di un punto liminare, su di un punto confinario, sempre catturati da un’incipienza, sempre sul punto di darsi nella forma di un trasalimento che ulteriormente li riveli e li installi in una danzabilità sgorgante e quieta.

A voler provare a stringere tutto in un resume buono almeno a stare nel palmo di una mano, si può anche dire che siano due i movimenti che, nella poesia della Mearini, paiono darsi a una particolare riconoscibilità, addirittura a una particolare evidenza.

Sono il movimento del mancare e quello dello spezzarsi: si tratta di movimenti che vanno intesi soprattutto come pulsazione dei versi e che pertanto vanno variamente letti e variamente assunti.

Dunque, per esempio, il mancare della parola, il venir meno del resistere, come qui esemplificato:

“Cosa ci manca / non sappiamo / mentre diamo nome / alla strada al paese / all’uomo al cane / che vivono attorno / quale parola rifiuta / di fiorire in voce / e cade mai nata / al piede-padre perduto”.

Poi c’è lo spezzarsi, che potrebbe anche essere lo spezzarsi dell’angoscia o quello del dolore, perciò il respiro e la distensione:

“Oggi non vuoi carichi / di colpe da espiare / oggi non vuoi / peccati a cui rispondere / è il tempo del sollievo”.

Parrebbero essere anche, questi movimenti del mancare e dello spezzarsi, le due forze attorno alle quali per intero si struttura la silloge, oppure – volendo – le due spinte che vi fanno arco e che la mantengono: ma sono, in ogni caso, due movimenti che, nella lingua-voce che qui dice e si dice (a un io; a un tu; a un noi: a un nulla e a un nessuno), stanno vicini come possono esserlo due polmoni in un corpo, due occhi in un volto, due nomi in un addio.

“È un giorno / che nessuno vede / perso nell’uguale / di tanti altri, / un giorno di carbone / in fondo agli occhi / e cenere nell’acqua / – eppure tu / innaffi le tue piante – / nella goccia che cade / dal balcone alla strada / ricominci il mare”.

In verità quella di Elena Mearini è una poesia che dietro il suo dettato-danzato, dietro il suo filante fluire, dietro il suo spandersi, nasconde (e però subito rivela: fa stillare, fa uscire in versamento) gli spessori di un’intellettualità (si direbbe una consapevolezza filosofica) tutta compiuta nel suo rarefarsi e, contestualmente, tutta dissolta nel suo porsi e proporsi: ma dissolta nel senso di dissimulata, non di svanita o svaporata:

“Non siamo fatti / per le forme facili / – ti annoia il cerchio pieno / mi stanca il triangolo esatto – / ci confonde / la geometria elementare / che non lascia / dubbio all’occhio / noi dobbiamo / torcere la linea / sfinire il margine / impegnarci a morire / nella complicanza delle rovine”. 

Si cede e si affiora sempre là dove si deconsiste da un’idea.

Simone Gambacorta

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