A guardarlo da cima, il solco profondo del cardo intagliato nella trama chiaroscura dei filari di coppi dei tetti spioventi a incastro, spacca a metà il borgo proprio lungo il crinale del monte su cui poggia, puntando verso la cresta del Corno Grande dietro cui tramonta il sole, affacciandosi sulla vasta vallata chiusa fra le vette innevate tutt’attorno.
Due file di tetti frastagliati e spigoli acuti di pietra si rincorrono scendendo il pendio e risalendolo come a disegnare la sella della gigantesca bestia gobbuta che è il monte su cui si arrampicano, di tanto in tanto allargandosi in slarghi, scalette e terrazzi a strapiombo sulla gola del torrente che rumoreggia giù di sotto, col suo carico di umidità densa e di profumo di muschio e cortecce bagnate.
A starsene li in silenzio su un affioramento di roccia, nel tempo rarefatto che sfuma la linea d’ombra alla lenta parabola del sole fino a quando l’azzurro gelido del cielo si incupisce accendendo di rosa intenso le cime innevate, i pensieri recedono; cedono al sibilo incessante del vento sferzante, incuneato nella spaccatura umida del torrente, a dar suono al silenzio.
Nel paesaggio di questo scorcio abruzzese tanto aspro da saper parlare all’anima, l’anima si rasserena, si riconcilia a ritroso in un tempo sospeso con le sue vite passate, torna ad abitare il legionario romano sbattuto su questo stesso pizzo spigoloso secoli fa, a guardia dell’accampamento e dell’intera valle ai suoi piedi, a contare ad una ad una le stelle nel blu baciperugina del cielo.
Castrovalva non è un paese, non può dirsi nemmeno borgo come i più grandi che si affacciano dalle pendici dei monti sulla Valle Peligna; ufficialmente frazione di un paesino è raggiungibile solo con un tortuoso anaconda di ghiaccio che s’avviluppa attorno al monte dal bosco umido del fiume fino alla cima spoglia e rude. Location strategica, certo, per un accampamento militare che domini l’intera valle e i suoi accessi ma meno ospitale, si direbbe, per andarci a vivere.
Un grappolo di case in bilico su un crinale, incastrato in una spaccatura di monti, è un’utopia, prima che una sfida, una dimensione fantasy senza tempo: abitare la tana del Bianconiglio di un carboncino escheriano incaponendosi, come solo la gente di queste pizzi sa fare, a convivere con le asperità della natura fuori dalla porta, ma, nutrendosene, allo stesso tempo, nel contatto con la Sacra Madre che ruggisce li fuori.
Qualche decina di abitanti stabili, l’antico castrum sulla Valva è oggi popolato da estemporanei vittime di navigatori impazziti, escursionisti tossici di natura selvaggia, rari passanti rifuggitori di folle, parenti e amici dei nativi, o solo curiosi di un posto così impervio e tortuoso da suggestionare Escher che proprio in questo anfratto di pianeta venne ad ispirarsi.
Già, viene da chiedersi, quale il destino di un luogo così inospitale, che possa assurgere a modello dei tanti borghi più confortevoli e semiabbandonati in tutto l’Abruzzo e nel resto della Penisola.
Il rischio maggiore è inghiottirlo nei circuiti dei tour operator dai tanti like in cerca di esperienzialità insolite, che diventi un parco a tema per pulmann di pseudo new agers voraci di selfie, recensioni di caminetti e pecorino a km zero; che un brand multimilionario se lo compri in blocco per farne una RSA di lusso per vecchi ricchi del pianeta o, semplicemente, in versione più sostenibile e resiliente, disseminarne l’abitato di b&b charme and chic per i romantici week end dei pacchetti regalo.
Qualsiasi destino per i pochi fantasmi che ancora si ostinano a viverci, anche quello che snaturerebbe più irreparabilmente lo spirito e l’autenticità dei luoghi, sarebbe preferibile all’abbandono e all’oblio, se non fosse che la rapidità con cui le tendenze da grandi numeri hanno consumato e distrutto i tessuti geografici e culturali già presi di mira da decenni, fino a farne prodotto di svendita, è già oggi un angoscioso presagio.
Perché invece non anticipare le tendenze invece di inseguirle, riabilitare l’utopia delle prime comunità che lo edificarono e riabitarlo. Senza cercarne target e categorie di marketing o di reietti da confinarci, offrire ai tanti disillusi dal rumore delle città sempre più invivibili, dai costi, dalle ambizioni di rendite sempre più inaccessibili alle masse, un’alternativa possibile.
Ricreare una comunità spontanea, in fondo poco più di un condominio cittadino, che abbia come unico carattere comune il piacere di vivere defilati dalle grandi densità abitative e più vicini alla natura.
Certo, l’utopia si costruisce mantenendo un sano e saggio equilibrio fra la dotazione di confort essenziali e lo snaturamento dei luoghi, rendendo le micro comunità autosufficienti in servizi e assistenze primarie, ma nell’era delle interconnessioni e dei robot intelligenti non è affatto missione impossibile, certo meno impossibile dell’insediarsi migliaia di anni fa in un accampamento militare.
Che poi, a pensarci, cosa dovevamo farne del Tempo che rincorriamo nella frenesia del quotidiano giro di ruota del criceto in gabbia? Di cos’altro dovremmo riempirlo per tenere accesa l’illusione di sfuggirgli, di quali stimoli irrinunciabili, quali imprese straordinarie, quali rumori a frequenze insostenibili? Quali emozioni si perderebbero in un borgo sperduto nella geografia e nel tempo conosciuti, sospesi in un fortino di silenzio e riserve di energia a strapiombo su un torrente di vento?
Antonio Pizzola
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