Giovanilità

In tutta coscienza chi non potrebbe oggi dirsi giovane?

Se un trentenne è poco più che un ragazzino e un ventenne praticamente un cucciolotto da nutrire a vitamine, iphone e motorino, un quarantenne è giovane a pieno titolo. Ma lo è anche un cinquantenne, chi potrebbe negarlo?, così come sfido chiunque a dare del vecchio a un sessantenne ancora nel fiore dell’età. E se un settantenne da poco pensionato è sulla soglia di una nuova giovinezza, e spegnersi a 80 anni, si dice, mica era vecchio, forse solo al compimento del secolo si può agognare il meritato epiteto, liberi finalmente dall’ansia di prestazione di Narciso sulla riva del lago.

In una società che si allunga la vita come una sottiletta in un toast e la vecchiaia diventa un innominabile tabù da allontanare dagli occhi e dal cuore come un amore finito, il momento di passaggio si fa irrintracciabile, la terminologia zeppa di rispettosi eufemismi e la deadline che segna la naturale metamorfosi si sposta indietro come le lancette manomesse del capodanno di Fantozzi.

In giro è tutto un pullulare di cloni rigonfi e allisciati di ex bellezze, antiche chiome rinseminate in parrucche sporadiche, tranci di pelle appese rassodate da unguenti miracolosi, tartarughe fuori stagione alimentate a estrogeni, rigonfiamenti rinturgiditi da addizioni sintetiche, e poi truppe cammellate di trainer, guru, conselor, dietisti, taumaturghi a reprimere in segreto l’indicibile inevitabile trascorrere del tempo.

La giovinezza, nel suo abuso compulsivo, diventa un bluff, un’ipocrisia tacitamente condivisa, cosìcchè quando per ragioni oggettive si è costretti a mettere un limite, per un concorso, un’agevolazione fiscale, un contributo o una statistica, ogni valutazione diventa paradosso e la soglia una farsa.

Un cinquantenne esodato è costretto a vivere la medesima condizione del trentenne precario che potrebbe essere suo figlio, un cervello maturo fugge insieme al suo collega ventenne, un premier di quarant’anni fa notizia e paura di rottamazione come se avesse appena messo il piede fuori dall’uscio di casa.

 

Solo all’approssimarsi di una tornata elettorale, in cui l’incertezza del voto generazionale diventa determinante, si riscopre la gioventù vera, quella di diritto che una volta si fermava al 25simo anno di età e oggi scivola paurosamente oltre i 35.

I minori di 35 anni –dicono le statistiche, fermando il campione a questo limite per decenza – non distinguono la destra dalla sinistra, politicamente dislessici. Il 60% – la stessa percentuale che vive ancora a casa con papà e mamma, per carità, giovanissimi anche loro- non si identifica in nessuna delle opposte parti politiche, non considera valore l’appartenenza e non distingue propositi e rappresentanti.

L’attributo giovanile diventa nelle interpretazioni degli esperti sinonimo di bamboccione qualunquista senza identità, coglioncello di fresco pelo che rifugge i valori sociali e vaga nell’indistinta schiera dei nullapensanti, oltre che nulla facenti.

Strano, si direbbe, in fondo è una delle consapevolezze che si impara da piccoli, la destra sta a destra, la sinistra a sinistra. Strano che non si ravvedano le differenze nonostante il moltiplicarsi delle news e il contatto diretto continuo con i vip sui social.

Strano perché la società che li ha allevati, cioè noi altri giovani adulti, ha ben saldi i suoi valori, tanto che si indigna e preoccupa che i giovanissimi possano perderli, perchè la conservazione dei valori, va da sé, è essa stessa valore condiviso primario.

 

Rimanere a casa coi genitori, viceversa, non è valore altrettanto fondante della società, per cui non si contravviene a nessuna etica se si resta, studente, disoccupato o lavoratore ormai cresciuto, con la sempreverde mamma, cena pronta e letto rifatto, in una reiterazione sine die della fanciullezza.

Strano, di nuovo, a mettere insieme i dati si direbbe che più le nuove generazioni restano a contatto con le più anziane, meno ne assorbono principi e valori, più le differenze che una volta generavano incomunicabilità si riducono più se ne generano perversi epigoni, compresi i suicidi di massa dei ragazzini nel tragico gioco della balena blu.

Deve essere colpa della scuola, ne desumono gli esperti: non si impara più nulla, i giovani sono sempre al computer, di mamme ce ne è una sola, il ritmo nel sangue e via dicendo.

Deve essere colpa del web, replicano altri esperti, è lì si nasconde l’insidia, il nuovo paese dei balocchi in cui spietati lucignoli trascinano gli ingenui pinocchio tutto fate e trucioli lontani dalla casa comune.

Deve essere colpa dei tempi che cambiano, sembrano pensare le masse indistinte, o del destino. I bambini si fanno giovani a casa di genitori sempreverdi per prepararsi a un indifferenziato mondo di giovani, condannati tutti ad una giovinitudine spalmata che non esclude nessuno.

O forse non c’è colpa. Forse semplicemente vuole così un dio imprescrutabile che ha per noi altri disegni, nei quali conta poco l’età, contano poco gli antichi valori e ancor meno ogni tipo di differenza. Prima fra tutte quella fra la destra e la sinistra.

Quel che è certo, non è comunque colpa nostra.

 

Antonio Pizzola

 

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