Il numero 13

Il 1 aprile 2022, giorno dell’omonimo pesce, l’Italia si risvegliò con il presidente della repubblica numero 13:

il Cavaliere Silvio Berlusconi.

Si era avverato il peggiore incubo dei tanti che ne avevano scongiurato gli epigoni riempiendosi le bacheche di vignette contro, come dei tanti che statisticamente debbono pure averlo votato, preoccupati della deriva peggiorativa del presente e della credibilità del paese nel mondo. 

Come se invece il rivale designato fosse una madreteresa.

Merito degli Uraniani, bisogna riconoscerglielo, intervenuti a risolvere il nostro rimbambimento post traumatico, con un decisione estrema del Loro Gran Consiglio: calandosi con le navicelle sulla Maiella, (ignari quella fosse terra di poeti che vanno la notte a ululare la luna e vi beccano l’ultima navicella in rientro), sarebbero scesi per indirizzare diversamente i destini scritti dai Saturniani, potenti nemici dominatori nella galassia che telecomandano Draghi coi quanti nel grafene, comodamente sdraiati su un gas di anello saturnino. 

Non avendo alternative, all’ottava votazione gli Uraniani hackerarono i bottoni all’unanimità per il Cavaliere, sereni delle aspettative di vita ormai nonnetta già tronfia di tutto quanto poteva avere un mortale in una vita. Tutto, tranne quel tanto agognato compimento di carriera, lo scettro regale nell’ultimo quarto della vita, il più bello perchè libero da impellenze, che non si è negato, a proposito di alzheimer, manco a Cossiga.

La versione rincoboy di Silvio, si dissero gli Uraniani, avrebbe reso grandioso il suo settennato, per almeno 3 rielezioni. Si sarebbe concentrato, come effettivamente fu, sul cerimoniale che, con l’incalzare della confusione senile, lo distoglieva dai problemi seri, tranquillamente lasciati al premier di qualsiasi colore o forma esso fosse stato.

Così andò. Silvio coniò la sua moneta in platino che lo raffigurava col parrucchino intercambiabile, che spargeva sulla folla dagli elicotteri la domenica mattina, nel giorno anche detto del presidente: ogni gettone un posto di lavoro, ogni parrucchino d’oro un reddito di cittadinanza.

Sostituì d’imperio i corazzieri a coda di cavallo con statuarie amazzoni da due metri, in short e stivaloni che al passaggio dello scettro presidenziale si sporgevano a ponte nel terzo passo della macarena.

Il piano terra del Quirinale, svuotato dei polverosi archivi istituzionali, diventò il bengodi a luci rosse planetario, asfaltando Amsterdam, ormai dimessa e desueta: sotto le arcate affrescate del porticato cinquecentesco signorine e signorini strabordanti dalle stanze si inseguivano in baccanali dalle sete svolazzanti al ponentino, come li avrebbe dipinti Caravaggio: la nuova immagine della Città Eterna riecheggiava ammaliante in tutto il sistema solare.

Al Circo Massimo tornarono le bighe, i cavalli, la polvere, al Colosseo il sangue; a Caracalla le terme, con gli ori al posto degli stucchi e le fontane che danno vino, come fosse Marino. 

Il Presidenterè, come si chiamò, istituì il saluto col quale sostituire i nocchia contro nocchia dei tempi bui: il TucaTuca a sfioro, in un lampo moda pop virale nelle chat delle ambasciate di mezzo mondo, tutte pazze del touchè all’italiana.

The Young Silvio, come lo chiamavano negli uffici presidenziali stranieri, tirava come un piatto di farina bianca soffiato sui continenti, le sue dirette piottavano milioni di k sui social.

Perfino la Merkel, colpita da un laser uraniano fuori rotta e acquisite le sembianze della Carrà, fissò la residenza al primo piano, proprio sopra i baccanali, da dove scendeva almeno una volta al giorno per farsi salutare dall’amico sovrano. 

Fu lì, proprio nei saloni del Decamerone Al Quirinale, che si tenne il G20 del 2025, aperto per l’occasione ad altri 680 nuove G a cinquecento milioni di cripto valute a ingresso. Sconto per federazioni.

Dopo due mesi di consultazioni, in un candido saio sciamanico ecru, apparve Greta, appena nominata portavoce dell’Unione di Tutti gli Stati in Pace di Sta Cazzo di Terra, che, seminuda fra i velari con un cesto di mele sulla testa, a fil di voce a risparmio energetico sospirò la fine delle emissioni di Co2, l’acqua e energia solare a tutti, il ricongelamento dei poli, vaccini a piovere e, per finire, la resa dei talebani che, intanto di là strafatti di oppio, a domanda specifica avevano testualmente risposto:

la libertà, ma de che?.

Poi, prima di tornare fra le acque bollenti, la ninfa Greta si avvicinò alla telecamera, e strizzando l’occhiolino, sussurrò in perfetto italiano: 

Meno male che Silvio c’è.

Antonio Pizzola

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