Il patriota mundial

Il mondiale di calcio o l’olimpiade erano come il natale, la pasqua. Arrivavano ogni tanto. Quasi fossero un’era bisestile. Segnavano la vita della gente: non si piazzavano matrimoni in quei giorni lì, appuntamenti di lavoro o vacanze fuori porta. Si stava fermi davanti alla tivvù. Il mio primo mundial a colori fu quello dei colonnelli e delle madri de Plaza de Mayo del 1978, quarantotto mesi prima Giorgione Chinaglia che mandava a fare in culo Valcareggi lo vidi in bianco e nero. Anche i sette gol nelle porte dell’Atzeca di Mexico 1970.

Per Spagna ottantadue spuntò il telecomando, sempre nelle mani di Luciano. Papà del mio amico ingiustamente accusato, mentre suonavano gli inni di Mameli e Argentina, di averlo perduto. Dove, non si sa. Ci trovammo, per caso, nel salotto buono dell’ultima casa di via Freda, dalla seconda fase del torneo a doppio girone, quella senza speranza per il vecio Bearzot. Lui, il padre e io. Un compagno riverista tifoso di Falcao che dall’alba aveva scavalcato la ventina, il granitico professore calciofilo, un silenzioso ferroviere dirimpettaio di pianerottolo e quel signore gentile con i baffi brizzolati. Aveva passato i sessanta da poco, come me tra un mese. Accomodati al solito posto, gli stessi, fino alla finalissima del Santiago Bernabéu, azzurri contro tedeschi, l’undici luglio all’ora di cena. Quarant’anni fa.

Dopo aver strapazzato Maradona e la sua maglia, fatto piangere l’ottavo re di Roma Paulo Roberto e scherzato con l’aquila bianca orfana di Boniek, questa volta eravamo convinti che quella coppa sarebbe ripartita in aereo con Sandro Pertini, patriota come il vicino di sedia. Anche quando Cabrini scalciò il rigore alla sinistra di Schumacher. Sentimenti che divennero realtà: Rossi, Tardelli e Altobelli resero nulla la pera della bandiera di Breitner. Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo: al terzo fischio di Coelho l’Italia diventò per incanto una nazione. Alla faccia dei gufi e dell’odioso Stielike. Sembrava che il piombo, il terrore e l’inflazione non ci fossero mai stati, che tutti parlassero una sola lingua, come avveniva in Germania anche se ancora divisa a Berlino da una muraglia.

Il sottotenente della Brigata Maiella era felice, sorrideva a fianco a noi e al telecomando ritrovato. Come quando entrò nella Bologna liberata il 21 aprile 1945. Gilberto Malvestuto ha già sconfitto il secolo di vita, vincendo una guerra e quattro trofei: quello con noi a Madrid, l’ultimo dell’Olympiastadion e la doppietta nel trentaquattro e trentotto. Anche se il saluto a braccio teso dei ragazzi di Vittorio Pozzo a lui, croce al valor militare e cittadino onorario di Brisighella, non è che piacesse tanto. Tossico come il fumo delle sigarette in quella stanza.

Dylan Tardioli

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