
Quell’anno Pasqua era un profumo di refoli di vento sottile e freddo di tarda primavera, di viole appena schiuse nascoste in mezzo alle siepi di bosso della Villa comunale, dei tigli fruscianti pronti a spandere la loro fragranza lungo Corso Ovidio. Pasqua era una casa viva e operosa, con la nonna indaffarata alla cucina e le sorelle ad apparecchiare il vestito buono. Pasqua era il profumo di cannella e fiori e frutta mista che usciva impetuoso dalla porta dell’Antica Confetteria “L’Unica”, all’angolo della chiesa della Ss. Annunziata (a due passi da me), e che mi entrava prepotente nel naso e nella gola attraversando la navata della chiesa gremita per la celebrazione del Sabato santo.
Gino, il sacrestano, aveva incensato così tanto Don Peppe Caravelli, un prete minuto solo testa calva e talare, da farlo diventare un dipinto di Chagall. Io, bambina, seguivo composta la celebrazione dal primo banco, pena l’esclusione dalla Prima Comunione, le mani e i piedi freddi di mura antiche, con la signorina Colecchi immobile ed eterea seduta vicino. Ero rimasta quasi senza fiato, così all’uscita, sul sagrato, aspirai l’effluvio che veniva dalla Confetteria e all’istante mi liberai dell’incenso e della presenza ingombrante della signorina. Era impossibile passare davanti alle vetrine senza sbirciare, pur sapendo di procurarsi un languore diffuso, un piccolo dolore sordo tra la bocca dello stomaco e il cuore che mi avrebbe accompagnato per il resto della giornata, sapendo bene di non poter chiedere dieci lire per due “togo” né di entrare per vedere da vicino che profumo avesse la meraviglia.
Quel Sabato Santo, dalla vetrina centrale (la più grande) mi ammiccava un cestino pieno di uova della stessa misura di quelle “vere”, ma colorate di tenui colori pastello: rosa confetto, celeste carta da zucchero, giallo paglierino, gli stessi delle uova di Maria Rosa che, dalla copertina delle ricette Bertolini, consigliava gli ingredienti giusti per il dolce perfetto. Tutt’intorno galline e gallinelle, pulcini, coniglietti nidi pieni di vita e di golosità, tutti rigorosamente di cioccolata. Ma il cestino delle uova era un contorno. In mezzo alla vetrina campeggiava un uovo (grande come quello che Magritte dipinse per le “affinità elettive”), alto tre galline messe l’una sull’altra, marrone scuro, lucidissimo, come le scarpe indossate da mio padre la domenica di Pasqua. Il mio respiro appannò la vetrina, forse per lo stupore di qualcosa mai vista prima. Feci un passo indietro ma gli occhi erano rimasti incollati a quel cioccolato tirato a specchio sul quale erano fioriti rami di fiori di mandorlo e di ciliegio lavorati con zucchero colorato. Pasqua era lì, davanti ai miei occhi increduli con il verde nuovo della primavera disegnata a rilievo dai boccioli perfetti rosa tenue, sfumati appena, aperti o schiusi del tutto ad aspettare l’ape e la farfalla e che parevano uscire fuori da quella tela di cioccolato e venirmi incontro, e invitarmi a toccare, ad assaggiare come se per me quello non fosse già una fata morgana.
Come il volo delle effimere, la mattina di Pasqua, dietro la vetrina, l’uovo capolavoro non c’era più. Per me ormai niente aveva più importanza: la mano calda di mio padre, il completino quasi nuovo dell’anno prima e un po’ azzeccato che non aveva fatto i conti con la mia crescita, la fretta di rincorrere la processione per non far tardi. All’improvviso mi fu chiaro cosa fosse la delusione, perché di quell’uovo non potevo più gustare la bellezza. Al centro della vetrina, faceva bella mostra di sé un agnello di marzapane accovacciato su una toppa d’erba di codette verdissime che pareva lanciare sguardi languidi ai passanti frettolosi di guadagnare un posto buono per vedere la Madonna che scappa in piazza. La piazza gremita, i vestiti buoni, la Madonna, uno smeraldo puro di speranza e di amore con il Figlio accanto sorprendentemente vivo, i colombi scappati insieme ai palloncini sorpresi dagli spari dei mortaretti, i baci e gli abbracci, i visi soddisfatti dei forestieri, il profumo di lasagne e di pizza con la ricotta.
È vero che Pasqua a Sulmona la beviamo insieme al primo latte e l’amiamo per tutta la vita, ma quella Pasqua per me è rimasta un sogno vivo di bambina pieno di meraviglia e di stupore, fatto tutto di cioccolata, assaporato con gli occhi e incarnato nel cuore per restarci per sempre.
Beatrice Ricottilli
Bellissimoooo… congratulazioni, mi ha fatto riassaporare magistralmente e con il cuore vecchie emozioni 👏👏👏👏👏
molto bella
È la Pasqua che tutti noi,ora anziani,abbiamo vissuto,unica e irripetibile in altri posti che non siano Sulmona.Buona Pasqua a tutti.
Meravigliosa Beatrice!
Beatrice, amica mia…. Penna magica e animo sensibile. Commovente!
Nobile messaggio sulla psicologia del desiderio nei bambini. Il desiderio nutre la psiche, la motivazione, combatte l’apatia. Buona Pasqua
Bellissimo!! Come tutte le tue opere! Grazie!! Sulmona sempre nel cuore. Buona Pasqua!
Che dire del tuo rivivere il tempo passato di una Pasqua ormai legata a tempi in cui i veri valori di amicizia di amore erano radicati in noi future generazioni.Oggi invece…..stupendo articolo bravissima.
Che dire del tuo rivivere il tempo passato di una Pasqua ormai legata a tempi in cui i veri valori di amicizia di amore erano radicati in noi future generazioni.Oggi invece…..stupendo articolo bravissima.