
Ai giornalisti capita, e anche spesso, di ritrovarsi in tribunale per motivi professionali. E’ una parte del lavoro, anzi, per chi il lavoro lo fa guardando in faccia il diritto di cronaca, senza timori e censure. Siano esse di ordine politico o personale. Ed è comprensibile (non sempre giustificabile) persino che chi è oggetto della cronaca si rivolga al tribunale per trovare una rivincita, spesso ingiustificata, al dolore e all’umiliazione che si può subire nel ritrovarsi alla pubblica gogna.
Quello subito ieri dal Germe, nella persona del direttore responsabile, però, non è stato un caso come tanti altri: l’accusa di cui dovevamo rispondere non era quella “classica” di diffamazione, ma di aver violato la privacy di due donne, di cui una minore, rendendo riconoscibile, a parere dell’accusa, le vittime di una violenza sessuale e di un maltrattamento. E questo nonostante i due articoli incriminati, non riportassero né i nomi, né i luoghi, né riferimenti alla professione delle persone coinvolte.
Il dirigente della polizia di Stato, nel 2020, quando uscirono le notizie, ce lo aveva “giurato”: dovevamo scrivere solo quello che diceva lui. Diceva lui. Per buona pace della professione di giornalista, dell’articolo 21 della Costituzione, del diritto di cronaca.
La procura si era impegnata a cucire una capo d’imputazione a dir poco fantasioso: violazione della privacy, trattamento illecito di dati personali, pubblicazione di atti processuali, diffamazione, violazione della deontologia professionale, con tanto di segnalazione al Garante della privacy che, però, aveva ritenuto di non dover intervenire dopo aver letto le nostre controdeduzioni.
E poi tutto il circo degli haters, dei leoni da tastiera e persino di qualche collega che aveva prontamente segnalato il rinvio a giudizio alla Commissione disciplinare.
Ieri, alla sbarra, la giudice Francesca Pinacchio, ci ha assolto con formula piena: il fatto non sussiste. E, oggettivamente, non sussisteva: perché le accuse erano infondate, le persone coinvolte non le ha riconosciute nessuno se non i familiari (che erano già a conoscenza dei fatti) e nessun atto processuale è stato reso pubblico. Nulla di nulla.
Al di là degli aspetti tecnico-giuridici, però, l’accusa che ci era stata mossa era per noi, e in particolare per noi, dolorosa e offensiva.

L’avvocata Teresa Nannarone, nella sua brillante arringa, lo ha spiegato con cognizione di diritto e di cuore. Se non altro perché con noi ha condiviso tante battaglie contro la violenza di genere, a cui la nostra testata ha dedicato non solo centinaia di articoli (prodotti in udienza), ma anche campagne di sensibilizzazione, mostre fotografiche, rappresentazioni teatrali, trasmissioni radiofoniche, premi e anche una specifica rubrica sul sito.
“Il Germe – ha detto la Nannarone – è stato sempre dalla stessa parte, dalla parte delle donne vittime di violenza, ed è quanto meno fuori luogo contestare, al di là degli elementi di prova che sono comunque assenti, il dolo specifico”. La volontà, cioè, di voler nuocere alle protagoniste di queste due brutte storie di cronaca, per “trarne – addirittura – profitto”.
Quelle due donne le ho viste sedute al mio fianco durante le udienze a porte chiuse e nonostante si siano costituite parte civile, nonostante le denunce-querele abbiano portato il pubblico ministero a chiedere dieci mesi di reclusione, nonostante gli anni sotto processo, mai per un minuto le ho ritenute controparte.
Perché Il Germe, starà sempre dalla loro parte.
Patrizio Iavarone
A prescindere da questo caso .
Ormai pare vada di moda attaccare e screditare i giornalisti che hanno osano dire la verità .
-anche in qiesta campagna elettorale come al solito chi dice la verità viene zittito o denigrato .
E dovere di ogni cittadino notare e riflettere di come vogliano piegare anche l’informazione .
Non per niente siamo scesi al 49esimo posto nel mondo per libertà di stampa.
Solidarietà al Direttore ed alla Redazione del Germe
Anch’io solidale con il Germe