L’Arca della Disumanità

Non che venissimo da periodi di particolare affiatamento sociale da cui la pandemia ci abbia distolto: senso di comunità, empatia ed entusiasmo per il prossimo erano già messi in dubbio ben prima di marzo scorso. Nei comportamenti, se non già nelle discussioni, avevamo via via ridotto le frequentazioni a parsimoniose occasioni, ma anche queste più per non cedere alla sindrome dell’orso marsicano che per umana impellenza.

Le relazioni soffrivano da tempo di stress da inadeguatezza e incomprensione, invidia in misticanza con accidia, se non semplicemente noia: cosicchè a stare a sentire i soliti -come pure gli altri-, più che rilevarne le singolarità e nutrirsene si finiva ad ammetterne la conformità al già detto, visto e sentito, tanto da indurci l’acquolina in bocca di un calumet sulla collina come i vecchi saggi apache.

La stessa regola del distanziamento –a pensarci, e le parole hanno sempre un loro peso-, non è emergenziale, sanitaria, precauzionale, fisica, ma letteralmente “sociale”, come l’attributo all’animale che per definizione siamo.

L’estate post lockdown sarebbe stata un banco di prova per l’animale sociale, se nei ricontatti ne avessimo riacquistato la voglia o, di converso, se ci fossimo convinti definitivamente di poter fare a meno del prossimo invadente e minaccioso.

Oggi, a estate finita e contatti sociali moltiplicatisi in una catena di sant’antonio di allarmi senza top ten, il rischio del contagio cala sugli stati d’animo del rientro come un velo misericordioso mettendo a tacere i sensi di colpa di asocialità e giustificando la parsimonia di rapporti extradomestici con la necessità imposte dai dpcm.

Gli altri significano metti la mascherina-togli la mascherina, abbraccio si o piuttosto saluto con quarti di arti periferici, piedi, gomiti e occhiolini, sorvolando se la loro gocciolina di entusiasmo salivare sia volata nel bicchiere o se il cameriere non abbia starnutito in cucina, nella spasmodica ricerca di conversazioni frugali, che almeno per un momento ci distraessero dai guai.

Lo stress che se ne produce non conosce tregua, si alimenta già del novero delle deroghe alla precauzione che ci siamo permessi in vacanza, quale corpo abbiamo sfiorato, abbracciato se non – diomio non voglia – limonato, mentre il battage mediatico ubiquo e spietato del Grande Fratello Sanitario ci ricordava l’orlo di un nuovo baratro, come se la primavera passata fosse solo il trailer del sequel autunnale.

Evitare i contatti, riducendoli allo stretto necessario ed eliminando le occasioni di festevole disimpegno.

Per quali indubbi vantaggi nella frequentazione con altri che già ci venivano a noia, sacrificarsi a tanto stress?

A vederla con un obiettivo storico un po’ più ampio slegato dal covid, parrebbe una reazione all’impegno di condivisione, socialità e comunità che dagli anni 70 ha conformato la nostra convivenza.

Il gruppo, il partito, le comuni, la squadra, lo stadio, l’equipe, il campeggio e la scuola, dell’obbligo e del tango, fino agli oceanici woodstock musicali, sportivi e culturali tanto decantati nelle rievocazioni televisive, hanno annebbiato il loro appeal, relegando la nostalgia nel ricordo seppia incorniciato nella foto sul comodino.

Perfino l’adolescenza, che avevamo vissuto come l’età del gruppo per antonomasia, si era rintanata dietro un monitor che rimproveravamo come angosciante deriva generazionale, salvo poi sbraitare contro gli stessi ragazzi appena provavano a svegliarsi ai richiami ormonali accalcandosi in odiose movide, bersaglio delle accuse più anziane di “disagio di residenti“.

Rispetto a quanto da più parti predetto, la pandemia non ha generato alcun sostanziale mutamento sociale, ha solo portato alla consapevolezza, accelerandola, una tendenza diffusa di idiosincrasia per i riti e i momenti collettivi, gli stessi che chiunque di noi più grandi, magari solo fino a qualche anno prima, aveva ricercato, frequentato e vissuto fino ad annoiarsene.

Arrogandoci oggi la presunzione di evitarla ai figli che è più sano se ne stiano senza grossi sacrifici al monitor di casa col prof che si rimpalla la lezione mentre allatta il neonato piagnucolante.

Improvvisamente così, allo scadere di un’estate che sapeva di tregua ad una guerra civile incipiente, una sola domanda che solo lo scorso anno sarebbe parsa ozio da speculazione antropologica, riverbera fra i bit nell’etere:

Quanti sono gli altri che sentiamo strettamente necessari?

Chi porteremmo nella nostra arca da diluvio insieme al cane, all’ipad e al vasetto di basilico? Con quanti organizzare la personale cellula di sopravvivenza sperduta in campagna, a distanza di sicurezza dalle altre arche in un medioevo di micro comunità autarchiche perimetrate dentro le mura del castello?

Il minollo con le corna che ci implorasse ricovero lo avremmo fatto entrare?

Antonio Pizzola

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