Le amicizie di Agamben

Come in tutti i libri importanti, anche in questo nuovo di Giorgio Agamben, Amicizie (Einaudi), ci si ritrova a soppesare una frase defilata (quella conclusiva della premessa) che da sola regge il volume. È questa: “L’amicizia esige la nostra testimonianza”. È una di quelle verità in cui ci si ambienta prima ancora di averle messe a fuoco. Ma bisogna domandarsi che cosa voglia dire, che “l’amicizia esige la nostra testimonianza”. Non è un discorsetto di belle intenzioni, ma un metodo di conoscenza e di critica delle cose. L’amicizia richiede continuamente di essere pensata, anche laddove abbia subito un’interruzione o una fine. Testimoniare l’amicizia significa non solo viverla socialmente, ma anche dirsela e dirla, lasciare che si attesti liberamente quale metodo di ascolto di sé stessi e dell’altro e più ancora dei processi che da essa partono, siano essi emotivi, intellettuali, ludici (e guardino essi alla sintonia o al dissenso).

Il breve e potente libro di Agamben è fatto di ritratti di amici, il che significa che è fatto di autoritratti di amici e non è una contraddizione. Sono ritratti scritti, sono cioè parole, dunque parola: affidare alla logica della scrittura il sentimento amicale vuol dire forzare dei confini e aprirsi a possibilità ulteriori di cognizione:

“L’amicizia è così strettamente legata alla definizione stessa della filosofia, che si può dire che senza di essa la filosofia non sarebbe propriamente possibile”. 

Agamben è un filosofo e gli riesce mirabilmente di parlare con trasparenza lasciando che le complessità vivano nel moto leggero delle parole e non nella fumosità cafona dei “lessici autoritari” (Pontiggia). 

I ritratti sono tanti, alcuni imperdibili, basti pensare a quello di Patrizia Cavalli, veramente indimenticabile, o a quelli di Sonia Alvarez, Guy Debord, Elsa Morante, Giorgio Caproni: c’è anche il ritratto di Calvino, che però è quello meno interessante perché ormai Calvino siamo abituati a ritrovarcelo ovunque. 

L’intensità dei diciassette ritratti è indipendente dall’estensione che hanno in termini di pagine e questo si deve alla destrezza con cui Agamben usa le sue pinze. 

Nel ricordo di Sandro Messi, davvero brevissimo, si parla per esempio di temi che difficilmente potrebbero non considerarsi massimi. Agamben ricorda “i quaderni in cui egli copiava pazientemente testi da lingue che non conosceva”. Era un modo – chiosa – attraverso il quale Messi cercava di toccare “l’illegibile da cui proviene e verso cui viaggia ogni parola scritta dagli uomini”. 

Siamo a qualcosa di alto e fondamentale, che implicitamente contiene il perché dell’esistenza, in noi uomini, della poesia: perché in effetti la poesia è la risposta che, come specie, opponiamo al silenzio che ha preceduto il nostro sorgere di umani non meno che a quello che seguirà alla nostra “dissipatio” morselliana. 

Simone Gambacorta

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