L’INTERVISTA/ Francesco Quattrocchi direttore d’orchestra nel mondo, il sogno di una vita

 

Francesco Quattrocchi porta nel cuore il “Don Carlo” di Giuseppe Verdi: “Il primo grande titolo con il quale ho debuttato in un grande teatro”. Sulmonese, classe 1983, Quattrocchi sapeva fin dalla più tenera età dove sarebbe finito da grande. Ha diretto orchestre un po’ in tutto il mondo calcando i palchi di importanti teatri (Teatro Verdi di Trieste, Sofia Opera, Dubai Opera, Royal Opera House Muscat-Oman, Teatro Comunale di Bologna, Festival Scarlatti del Teatro Massimo di Palermo, Teatro Solis-Montevideo, Orchestra Filarmonica di Montevideo, Festival della Valle d’Itria, Ensemble Seicentonovecento, Orchestra Internazionale d’Italia). E’ stato allievo di Donato Renzetti, Gianluigi Gelmetti e Marco Zuccarini. Ha iniziato, insomma, a respirare musica fin da piccolo sempre a contatto con le sue profonde sfumature, note di qualità. Una carriera lunga che “unisce capacità artistiche e ideative oltre ad una tenace aspirazione al successo che si estende in ogni fase del processo produttivo di un evento musicale ed operistico. È profondo conoscitore delle tradizioni operistiche e sinfoniche nelle diverse prassi esecutive, con spiccata capacità di focalizzazione sulle specifiche qualità degli interpreti”. Ha aperto la stagione della Camerata Musicale di Sulmona e, tra novembre e dicembre, sarà all’Helikon-Opera di Mosca con “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini. Un vero talento peligno.

Come è iniziato tutto?

Con l’organo, in chiesa.

Frequentavo le elementari. Ricordo che da ragazzino sono entrato in Cattedrale e ho impresso nella memoria il ricordo di quel suono, ho detto: “Si, mi piace”. Mia madre ha trovato una insegnante qui a Sulmona, Mafalda Fasoli. Non era solo un hobby, ero particolarmente portato, poi ho frequentato il Conservatorio. Mi sono diplomato in pianoforte e direzione di orchestra. Mi sono perfezionato all’Accademia Musicale Chigiana. Ho iniziato ad insegnare in Conservatorio prestissimo, avevo 26 anni, appena terminati gli studi. E poi ho preso un altro diploma in musica da camera.

La prima volta che ha diretto un’orchestra?

A Sulmona. Nel 2001 venni contattato da alcuni amici che avevano l’esigenza di rimettere in ordine il coro del Venerdì Santo e mi hanno chiesto se volevo dare una mano. Il primo concerto fu durante una Domenica delle Palme, nel 2002, fondammo Alio Tempore Ensemble e tutto iniziò così.

 

Nella sua carriera qual è la cosa che più l’ha entusiasmata?

Ci sono diverse ricordi più o meno belli, ma essenzialmente il primo è quando arrivò una telefonata in un pomeriggio d’estate, mi chiamò l’Accademia Musicale Chigiana per dirmi che ero stato accettato agli esami di ammissione. Alla segreteria risposi: “Facciamo una cosa, io ora rimetto giù, vi richiamo e mi dite la stessa cosa perchè non ci credo”. E’ un’istituzione importantissima dove hanno
studiato tutti i più grandi direttori. Avevo 20 anni, pochi concerti alle spalle come direttore, molti di più come strumentista. Un altro ricordo, un po’ più avanti negli anni: nel 2008, stavo seguendo il montaggio di un mio disco che stava per uscire e un mio precedente disco era arrivato al Maestro Segalini che mi mandò un biglietto in cui mi disse che aveva il piacere di incontrarmi. Fissiamo un appuntamento, ma era un periodo pesante per me e pensavo di non raggiungerlo. Andai e incontratolo mi disse: “Non ho molto, ma posso offrirle La Creazione di Haydn al festival” fu molto bello.

 

 

La cosa che più l’ha delusa?

L’irriconoscenza delle persone. Purtroppo in questo mestiere non puoi unire l’aspetto professionale al senso dell’affabilità umana, che resta quella che hai solo con gli amici. Con le persone con cui lavori contano solo gli accordi contrattuali.

Ecco, che tipo di difficoltà ha incontrato durante la sua carriera?
Francamente poche. Ho la fortuna di essere portato per questo lavoro, gli eventi te li devi creare. In questo mondo nessuno è indispensabile. Più cresci e più aumentano le difficoltà. L’atto del concerto è importante, ma va di pari passo a tante altre situazioni, come ad esempio il collocarti
all’interno di questo sistema. L’unica vera difficoltà è non avere dimestichezza con due o tre lingue, non essere poliglotta, per studiarle c’è bisogno di tempo e a dir la verità non ho quella propensione. Conosco l’inglese, basta, anche se mi sono ritrovato in alcune situazioni, come a Pechino, dove uscito dalla metro avevo bisogno di chiedere informazioni, ma nessuno parlava inglese. Piano piano me la sono cavata. Nel 2018 oltre a saper fare il musicista devi sapere questo e tutto il resto, non esiste l’idea romantica dell’artista, che oggi deve essere una persona pratica.

 

A Sulmona ha recentemente ricevuto anche un Premio. Come trova la Città dal punto di vista culturale?

Si il Premio Sulmona per la Cultura. Quando ero ragazzo c’erano belle stagioni musicali e teatrali, molti spettacoli di eccellente livello. Oggi vedo poco, chiaramente perchè ci sono meno finanziamenti. Per fare cultura ci vogliono anche quelli, la cultura non è un hobby, chi fa spettacolo produce ricchezza. Nei posti dove le cose funzionano, soprattutto all’estero ma anche in qualche caso in Italia, attorno alla cultura c’è un mercato, non c’è lo Stato che dà soldi ad un ente e finisce lì. I soldi hanno una ricaduta concreta sul territorio. Certo la produzione culturale ha necessità di persone capaci di vedere lontano, capaci di intuire quali sono i canali sfruttabili oggi e negli anni a venire. La nostra è una mentalità in cui lo Stato ha dato tanto, ci si è abituati troppo bene, ci sono stati periodi in cui si poteva anche sprecare. Oggi non si può. Oggi sopravvive chi è capace di reinventare il sistema produttivo. Una cosa interessante che vedo a Sulmona e che è cresciuta tantissimo è il Muntagninjazz. Trovo che sia un festival innovativo, un esempio virtuoso di come fare le cose. Quello che si faceva 30 anni fa ora non si può più fare, ma non c’è neanche la predisposizione della gente. Quindi ti devi collocare, devi fare cultura, ma devi reinventare un modo di fare. Un altro plauso lo merita Gaetano Di Bacco, direttore artistico della Camerata Musicale, per la qualità delle scelte e per aver riportato moltissimi giovani nel pubblico nella loro stagione. Lui, persona capace e preparata, insieme a quell’autentico galantuomo di Tonino Tanturri sono persone diverse, che lottano tutti i giorni per portare avanti un modo di far cultura e hanno riscontro dalla città.

 

I giovani: in Valle Peligna ce ne sono parecchi che possono dare tanto a livello culturale su diversi campi. L’Italia, come l’ha descritta, è abituata ad essere imboccata. Cosa consiglia di fare a coloro che lavorano nell’arte e in generale con l’intelletto?

Sul territorio non puoi aspettarti molto, è un bacino molto piccolo. Certo prima c’erano molti stimoli. Chi approccia questo mestiere deve armarsi di tanta pazienza e percorrere la sua strada, come abbiamo fatto tutti. Devo dire la verità, e questo lo noto molto più spesso, c’è sempre meno competenza, si parla di talenti: dove, come e perchè? C’è distinzione tra il talento riconosciuto e l’auto-riconosciuto, troppo spesso non è molto chiara la differenza, anche se alla fine è la vita che sceglie. Devi studiare, avere talento e molta fortuna.

Si ritiene un “fortunato”?

Si per l’incontro con i miei maestri e con alcuni artisti eccezionali.

 

E’ forte la concorrenza nel mondo della  musica classica?

Moltissima, siamo sempre in numero maggiore e con notevoli differenze tra strumentisti e direttori. I primi dimostrano con più immediatezza il loro valore, per noi è un po’ diverso: è molto più complesso valutare un direttore. Il direttore non suona materialmente uno strumento, dirige un’orchestra, un complesso di strumentisti che può essere di diversa qualità o entità, chiaramente è una discriminante molto importante per giudicarlo.

Perchè?
Perché non si potrà mai capire fino in fondo se il risultato è del direttore o del complesso orchestrale. Troppe cose sono cambiate negli ultimi anni per fare raffronti o paragoni. Abbiamo un passato musicale glorioso e non è detto che il pubblico, oggi, possa apprezzare quello che si cercava prima
negli interpreti.

 

C’è una soluzione?

Francamente non lo so. Io penso di essere stato uno degli ultimi, per età, a formarsi con la generazione di quei maestri che potevano raccontarti, per esserne stati allievi, le vicende dei grandi interpreti del secolo scorso. Quanti possono oggi essere cosi fortunati da poter attingere da quel passato? La qualità media degli allievi si è abbassata, mi domando come potranno confrontarsi con il livello dei concorsi e con il resto del mondo che è ancora agguerritissimo. All’estero sono molto più interessati di noi, hanno strutture più solide, che ti avviano all’attività artistica. Nel passato affrontavamo le cose diversamente, senza superficialità, perchè il livello medio era più alto. Oggi c’è troppa leggerezza: non si può affrontare la vita così, la professione ti fagocita e il livello richiesto è sempre molto alto. Io rimango molto agguerrito, come tutti i miei coetanei con cui ho condiviso gli studi, i giovani ora affrontano ancora cosí questa professione?

 

Sarebbe utile capire perchè i ragazzi reagiscono in questo modo.

Perché probabilmente c’è una formazione diversa e non tutti sono predisposti. In passato c’era talmente tanto mercato che c’era spazio per tutti.

Progetti per il futuro?
Sono una persona sostanzialmente serena. Vorrei dirigere orchestre e in teatri con cui non ho ancora lavorato. Ho la fortuna di fare il lavoro che più mi piace, di essermi trovato in contesti meravigliosi. Quello che vorrei è ciò che non ho ancora avuto. Poi, sono inquieto per natura: appena raggiungo un obiettivo ne ho già individuato un altro. Dovrei sperare nella serenità di soffermarsi sull’attimo. Il difetto più grande che ho insieme alla testardaggine.

Simona Pace

 

 

 

 

 

 

 

 

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