Non va a lavoro perché agli arresti: licenziamento illegittimo, ma perde il posto

Perde il posto di lavoro dopo dodici anni di attività per aver mentito all’azienda, ovvero per avergli nascosto di essere stato assente perché in stato di arresto. Questa almeno l’accusa rivoltagli dall’azienda, ma da cui il lavoratore si è difeso portando in aula le prove della sua buona fede. Una sentenza destinata a far discutere quella emessa dal giudice del Lavoro del tribunale di Sulmona, Alessandra De Marco, che ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un operaio della Magneti Marelli, ma allo stesso tempo gli ha negato il reintegro, permettendo all’azienda di risolvere il contratto e condannandola, in applicazione della legge Fornero, solo ad un risarcimento pari a sedici mensilità.
I fatti risalgono al 23 gennaio dello scorso anno, quando Andrea La Civita, quarantenne operaio della Sistemi Sospensioni di Sulmona, viene arrestato nell’ambito dell’operazione Fenice, accusato di spaccio di sostanze stupefacenti. Raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, l’uomo telefona ad un collega dicendogli di avvertire in reparto che la sera non sarebbe potuto andare a lavoro, perché costretto agli arresti domiciliari.
La notizia fa il giro della fabbrica, anche perché riportata da tutti gli organi di stampa. Ma sul tavolo della direzione dell’azienda arriva ufficialmente solo il 2 febbraio un certificato medico, nel quale La Civita dice di doversi assentare (per il periodo successivo) per motivi di salute.
Il 15 febbraio arriva così il licenziamento in tronco dell’uomo che, secondo l’azienda, avrebbe tradito il rapporto fiduciario, assentandosi in modo ingiustificato e cercando di nascondere i veri motivi della sua assenza.
Il ricorso davanti al giudice del Lavoro si è ora risolto, almeno nel primo grado, con una sentenza che riconosce l’illegittimità del licenziamento, ma allo stesso tempo riconosce il diritto all’azienda a risolvere il contratto.
In sostanza secondo il giudice quella di La Civita non fu un’assenza ingiustificata, perché anche volendo non avrebbe potuto recarsi a lavoro in quanto agli arresti e quindi il licenziamento è illegittimo; altresì, però, ha riconosciuto al suo datore di lavoro le ragioni per risolvere il contratto: “Il fulcro della contestazione disciplinare – scrive il giudice – è costituito dal carattere fraudolento della condotta del lavoratore in quanto preordinata ad occultare all’azienda datrice la reale circostanza impedita della prestazione lavorativa”.
I legali di La Civita, Alessandro Margiotta e Catia Puglielli, annunciano ricorso per questa sentenza che nella sostanza si contraddice e che comunque rappresenta un caso di scuola, almeno il primo in Valle Peligna, di applicazione della legge Fornero.

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