Perché tanto livore

D’accordo, non è il più entusiasmante progetto di architettura al mondo, non la piazza più bella , né l’angolo più attraente della città.

Sa pure della mano di architetto, poverinoi ostinati a metterci un pò di giovinezza nel vecchio che rovina: un cordoletto angolato alla zahadid, un monolite alla moneo, le sedute a righe di legno come vanno adesso. Ridotti, poverinoi, a elemosinare panchine per giardinetti che piacciano ai sindaci, che accontentino i sovrintendenti e che poi tutti, vecchietti in primis, comunque ci criticheranno.

Lo so, amici architetti, è frustrante, lo so che fosse stato per voi manco ce le avreste messe le aiuolette, né quel gradino da marciapiede se non c’è più la strada da cui separarsi. Ma ci è toccato il periodo no, amici, il fondo del barile dove macera tutto quello che ci ha formato negli anni, futurismi, progetti, design, restyling e renovation, come si dice all’estero.

La possibilità di infilare un segnetto contemporaneo nel passato ereditato, come chiunque ci ha preceduto e dovunque, per risanare e migliorare quel che c’è, a noi non c’è toccato.

 

Non solo. Chiunque, amici e nemici, replicherebbe: E meno male.

Ci sta bene, ce lo meritiamo per come abbiamo rassegnato le ambizioni alla pochezza mafiosa rimasta unica committenza in Italia, nel Paese dove tutto è nato, giardinetti e panchine comprese e dove, chissà perchè, ormai si costruiscono e fanno audience solo cose abusive.

 

Ma se invece no? nessuno si chiede, se una qualsiasi iniziativa non fosse inaccettabile solo perché da venire, se invece fosse meglio e non per forza peggio di quanto già esiste, o magari fosse solo, come sempre nella storia, l’ultimo strato urbano, che rappresenta il qui e ora e che smetterà di essere alieno solo fra qualche anno. E se invece diventerà un angolo frequentato, se i futuri ci stessero, ci legassero emozioni, magari ci facessero sesso appoggiati a una colonna e lo propagandassero come il posto più eccitante del mondo…

Com’è stato in fondo da sempre: cosa fu solo cent’anni fa un portico fascista infilzato a forza nel tessuto medioevale di tutte le nostre più belle città che oggi, incapaci di discernerne origine e età, accettiamo come paesaggio naturale, anzi ce ne facciamo vanto andandoci vestiti a festa e portandoci i turisti.

 

 

La città è un organismo che pulsa, cambia pelle, si nutre delle genti che la abitano nel tempo, indigeno o forestiero, si serve dei poteri che si succedono per crescere, ad ogni generazione uno strato in più. Finchè, se smette di essere viva, a volte muore.

Ecco, la sensazione è che stiamo a questo punto.

Nella penisola in cui la città moderna si è originata e diffusa al mondo, dove è stata inventata la piazza, il luogo primo fisico e poi virtuale in cui tutto accade e si fa la storia, il comune, le strade, il campanile, il giardino, la chiesa e il loro disegno, si è smesso di crederci.

Quell’orgoglio a noi alieno che ammiriamo abbacinati all’estero, capace di mettere in fila a centinaia per visitare la novità fresca di inaugurazione, quell’eccitazione stupida con cui sono capaci di giocarci, portarci figli, amici e morosi, con le cuffie (addirittura a pagamento) per sentirsi raccontare il progetto come se fosse il proprio. Che del resto,  non è forse la favola più appassionante da raccontare ai posteri?

 

Già, i posteri, ma pure quelli, l’unico istinto a darci un seguito, l’unica finestrella sul futuro che ci concedevamo, zero, l’Istat dice non se fanno più.

Depressi, grigi, impauriti, impotenti, così siamo diventati. Capaci di eccitarci solo al video selfie sulla ruspa che al grido di ripulire-demolire-sgomberare, annienta invece di aggiungere, per lasciare non segni ma solo bava di zombie urbani, umani e costruiti, a macerare nell’indifferenza e nel livore della maggioranza.

Ignoranti o acculturati siano, destra, sinistra e vari attorno, opinionisti più trendy o solo ultimo utente social, uno più incaponito dell’altro a stracciarsi le vesti per non cambiar niente, a non toccare un sanpietrino, non aprire un buco,  un’aiuola, un tubo un cornicione, qualunque cosa sia, pure un cesso se c’è basta che resti così.

 

Se l’autocelebrazione, la megalomania, la retorica monumentale di re, imperatori, dittatori e papi del passato ci sono estranei, lo sono anche la grandeur, la sfida, l’investimento, la metamorfosi, la crescita, la speranza, la visione.

O solo semplicemente il dopodomani.

Il nuovo, a prescindere da come ci si appalesi, a ragione o meno, ci muove solo diffidenza. O resistenza.

Mai, e intendo nemmeno in un caso, motivato o pregiudizio sia, fiducia.

 

 

Antonio Pizzola

 

Così, dicevamo, dinanzi all’acquedotto medioevale sulmonese, è spuntato un modesto, ordinato e innocuo giardinetto, versione solo ripulita del già tardo camposantino ottocentesco che c’era. Senza pini, vero, poveri resti di sacrifici urbani piegati a suicidarsi nel fazzoletto di aiuola che li imprigionavano. 

D’accordo, mai accontentarsi del poco che fa venire solo l’acquolina per ciò che sarebbe potuto essere, ma ci ha pure le poltroncine in legno, i vecchietti riseduti, il pavimento fresco di calce, l’erbetta verde.

 

Che c’è di così inaccettabile per accanircisi contro con tanto livore?

 

 

 

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