Il perfido destino di un imballo

Questa è la triste storia di una vaschetta in polipropilene espanso, imballo isotermico di una porzione formato famiglia di ciliegine fiordilatte, specialità della produzione casearia sulmonese. Partita una domenica sera nel trolley di un pendolare diretto alla capitale, ignaro delle mani amorevoli materne che avevano riposto a sua insaputa la prelibata confezione fra le camicie profumate di ammorbidente. Certa la signora che il figliolo, al rientro dalla faticosa giornata metropolitana, immalinconito dalla mancanza della mamma lontana, avrebbe scartato il dono lanciandole cuoricini amorevoli di what’s up.

Ma non andò come il cuore di mamma aveva immaginato. Lo screanzato irriconoscente infatti, sceso dal pulmann Arpa delle ventuno e trenta, aveva trovato ad attenderlo la Punto dell’amico lucignolo per scappare a S.Lorenzo, ad annegare nel vizio le paturnie da rientro dalla casa natia da cui era fuggito.

E così la vaschetta, felice di aver lasciato quel gelido frigo di provincia per l’eccitante esperienza metropolitana, restò chiusa per giorni nel trolley, dimenticato, nell’evanescenza dei fumi della maria sanlorenzina, nel portabagagli della Punto parcheggiata al solleone capitolino.

Per essere rinvenuta solo quando il figliol prodigo, a corto di mutande di ricambio, si ricordò la valigia arroventata nel portabagagli della Punto. Svuotando il trolley aveva così trovato la confezione con i fiordilatte galleggianti in una melmetta giallastra maleodorante che ne sconsigliava l’assunzione. Imprecando contro l’eccesso di non richiesto amore materno, il giovane era rimasto a lungo annichilito dinanzi ai cassonetti differenziati chiedendosi dove minchia buttare quella confezione ancora intonsa, quel misto secco-umido-marcio che avrebbe mandato in confusione anche il cittadino più ligio.

Finì che la vaschetta, buttata nello strabordante cassonetto dell’indifferenziato, vi rimase a macerare per settimane a causa dell’emergenza rifiuti che affliggeva la capitale ormai da decenni, tanto da aver abituato gli abitanti a quel paesaggio multimaterico come al cupolone svettante sul lungotevere al traffico indifferente del tramonto. Il povero polipropilene si sentiva come Ungaretti in licenza natalizia dalla Grande Guerra, cosa buttata in un angolo e dimenticata con le quattro capriole di gas tossici sprigionantisi dai cassoni.

E chissà quanto sarebbe rimasta lì sotto a macerare, putrido dono materno rifiutato senza essere usato, se la sindaca della capitale, in uno scatto di orgoglio pentastellato, non avesse stretto un frettoloso accordo con l’avversario piddino che governava l’Abruzzo, deciso dal canto suo a chiudere al più presto per convolare verso l’agognata poltrona parlamentare.

Cosa poteva saperne la piccola vaschetta di termoindurente delle emergenze capitoline, degli accordi transregionali, dei lucri che avrebbe generato e di chi ne avrebbe beneficiato, di quanto sarebbe costata dalla produzione, ai viaggi su e giù per l’A24 dagli esorbitanti pedaggi aurei, fino allo smaltimento.

Immaginate la tragedia di quel contenitore plasticoso che sognava la termovalorizzazione sotto i cieli metropolitani, quando dopo l’ennesimo trasbordo fra nauseabondi compagni di viaggio, resti di pajate, caciepepe e abbacchi burini, il camion dell’Ama la rovesciò nella discarica della valle da cui era partita.

Tanto crudele la punizione che il Destino delle plastiche le aveva riservato per aver sognato in grande, la confezione multimaterica, come Lessie, Fievel e i protagonisti di ogni fiaba che si rispetti, tornò a casa, ma con una stretta al cuore di latte. Sarebbe rimasta a consustanziarsi nella terra natia, mentre il contenuto si gonfiava di gas tossici e germi, a dispetto dei milioni di poveri bimbi africani che intanto – ammoniva la mamma quando il piccolo non voleva mangiare – morivano di fame.

Non le restava altro che sperare in un termovalorizzatore che ponesse fine alla sua aspettativa vita da hilander, ma che nessun residente avrebbe mai voluto. O, in alternativa, di affidarsi alla vicina centrale di spinta, regalata sempre  in tutta fretta alla valle, che magari un giorno esplodendo sotto una provvidenziale scossetta della falda peligna, l’avrebbe evoluta in capriole di fumo tossico spinte su un buco di ozono nella stratosfera.

O che, riducendola nel calore dell’esplosione al fluido originario, latte e termoindurente, l’avrebbe lentamente colata nelle uberrime gelide undis giù nelle falde della terra ovidiana, ad alimentare finalmente sotto forma di acqua addizionata anche il figliol prodigo, in uno dei suoi ritorni nella casa natia.

 

Antonio Pizzola

 

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