Potere al Pareggio

Come tanti ai miei tempi, in provincia soprattutto, in principio fui chierichetto.

Ausiliario del prete con funzioni precipue, tipo versare vino, suonare campanelli, portare pissidi e croci in processione, passare fra i banchi il vimini della questua. O tenere acceso l’incenso fra i quattro candelabri a lutto delle estreme unzioni, concentrato sul dondolìo del turibolo per evitare la salma, non sia mai la notte fosse venuta a terrorizzare i miei sogni.

Ma non durai molto in quelle mansioni subordinate.
Insieme a due compagnucci altrettanto avidi di potere, dopo un’estate di gavetta sacrificata alla novena della madonna di luglio, mentre gli altri erano al mare  ci autoproclamammo con abile colpo di mano-come in ogni golpe che si rispetti- capochierichetti, sancendo con due striscette verdi cucite dalle mamme sulla cotta bianca, il ruolo già avallatoci dal monsignore.

Gli altri che si erano goduti il cicaleggio delle spiagge adriatiche, si trovarono al rientro gerarchizzati in una piramide senza scampo: alla base le matricole senza striscette, relegate alle funzioni più scomode, tipo le messe dei giorni feriali; più sopra gli ordinari a striscetta unica, e su in cima il vertice, l’inaccessabile triumviro a doppia striscia verde, in esercizio solo col vescovo o nell’ambita messa dei ragazzi delle 10,30 la domenica.
Dove ogni ragazzina della parrocchia, anche la più sfuggevole con navigati fidanzatini delle medie, al momento della comunione non poteva scampare al fascino del chierichetto che teneva il piattino, quella sorta di padella dorata a specchio che serve a scongiurare il rischio di un’accidentale caduta a terra dell’appena consacrato Corpo di Cristo.

All’autoproclamato triumviro i privilegi del potere, l’uovo di pasqua più grande, la fee sulle mancette dalla questua e le chiavi della sala giochi, dove un giovane viceparroco fresco di Concilio 2 aveva portato, accanto all’usurato biliardino di balilla rossi e blu infilzati alle spalle, il flipper dei Kiss manomesso per garantire palle infinite e gratuite a tutti. La mia prima educazione si consumava così sotto le arcate gotiche della chiesa cittadina, dove, oltre al tiro ai piccioni sul campanile a picco sui tetti, vigeva la distinzione salomonica fra l’angelo e il demonio, ciò che si e ciò che assolutamente no.
Finchè un giorno, sul pulmann delle gite domenicali, il neo viceparroco post conciliare, zittendo i Cugini di Campagna dal mangiadischi, intonò alla chitarra un semisconosciuto  Guccini, – che si vociferava si suonasse in qualche chiesa più sessantottina a cerchio attorno all’altare, prendendo la comunione con le mani.

Senza bisogno di piattini.

Capii così che l’età del piattino stava per finire e che se volevo inseguire le ragazzine sempre affascinate dall’ultima tendenza, dovevo imparare la chitarra e cantare che Dio, nonostante il monsignore dicesse il contrario, nelle stanze da pasticche trasformate e nelle nuvole di fumo, era morto.

Che ci fa qui dentro quell’Anticristo?
mi squadrò inquisitorio l’anziano parroco scovandomi in sagrestia il libro degli accordi di Dio è morto, regalatomi dalla più figa compagnuccia di tutte le scuole del regno.
Povero monsignore di vecchi mondi a due colori, che poteva saperne lui della nuova forza della dinamite che un giorno avrebbe mischiato tutto da Che Guevara a Madre Teresa nella nemesi della profezia andreottiana, moriremo tutti democristiani?

Messo con le spalle a muro, fra la candida cotta a tre striscette e gli eroi tutti giovani e belli con la tolfa a tracolla e i frau ai piedi, scelsi senza esitazioni la locomotiva della rivoluzione.

E furono volantini al ciclostile a spirito, scioperi e feste con sara che si svegliava a primavera. Dall’oratorio del flipper post conciliare alle stanzette ingiallite dalle marlboro rosse della FGCI, come si chiamava un tempo il giovane popolo comunista, quando – incredibile a credersi – era più cool di un party spritz sulla terrazza lounge. Barboni, capelluti e rivoluzionari i giovani rossi rimorchiavano come ganci da roulotte le più fighe incazzate a tette al vento, ammansendole nei fumi di maria, con un sussurrato de tu querida presencia Comandante Che Guevara. 

Ma nella chiesa rossa non bastava una gavetta di novene per scalare la piramide del potere: il direttivo a porte chiuse riceveva e rigirava i dictat dei piani alti, imprimendoli nel tazebao sotto il poster del vecchio Karl, profeta del sol dell’avvenire tramontato senza essere mai sorto.
Perché se nell’oratorio il Potere era divino e quindi inarrivabile a priori, nella Sezione era del Popolo, la cui esegesi però, al pari del Verbo biblico detenuto dal monsignore, spettava al Direttivo.

Ho ormai compiuto mezzo secolo e certe verità, per quanto scomode, tocca ammettersele: metà cotta a tre striscette e metà sciarpa rossa, chierichetto prima bianco e poi rosso, sono il prodotto del cattocomunismo novecentesco.
Figlio del compromesso storico nato morto nel portabagagli di una Renault 4, vittima della nostalgia di un sorpasso stroncato sul nascere da un ictus alla mia prima cabina elettorale, sono cresciuto nel coito interrotto di un’illusione destinata a turarsi il naso ogni volta, in attesa di quel mitico 35% che fu la prima volta volta e poi mai più.

Per concluderne, a conti fatti, cinque incontrovertibili certezze:

1) le Verità, anche quelle più assolute, passano di moda;

2) le ragazzine, quelle più fighe, stanno sempre un passo avanti ed è dura inseguirle;

3) Dio non è morto ma forse non è mai nato;

4) Il Potere, mutati facce e simboli, gira e rigira, è sempre lo stesso;

5) Ci aveva ragione il vecchio parroco che le cose opposte non si mischiano ma, come diceva Eraclito dalla notte dei tempi, si combattono senza tregua e senza sintesi armonica, per generare il destino.

 

6) Nella vita, diceva lo zio Costantino, non si vince mai, al massimo, si pareggia.

 

 

Antonio Pizzola
 

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