
La calata in provincia dei politici nazionali sotto elezioni non è certo una novità, anzi, è vezzo antico, tradizione consolidata e puntualmente evaporata all’indomani del voto.
Scendevano già nei tempi gloriosi della politica delle grandi masse a benedire i loro protetti, offrendogli l’autorevolezza strumentale ad aumentarne i consensi, come a rassicurare l’elettorato sul sostegno che avrebbero garantito al pupillo locale nella ridistribuzione delle risorse e delle poltrone a venire.
I pupilli locali se ne inorgoglivano in piazza, col nutrito codazzo di accoliti e questuanti, tanti Calboni fantozziani dal fate largo al duca conte verso il palco, dove, col petto tronfio incravattato a festa, il protetto si scorticava in applausi col Dentone a vista ad ogni battuta del protettore al microfono. Eccitato di poterlo sfoggiare nella gara con i candidati avversari a chi ce l’avesse più grosso e più amico, esattamente come secoli prima il valvassino quando il valvassore calava a benedirlo sfoderandogli lo spadone sulla testa davanti al popolo acclamante, contento allora come oggi, di partecipare alla festa dell’investitura degli stessi signori che lo avevano vessato e avrebbero continuato a vessarlo.
E, come il valvassore suo avo, finito il comizio, il politico di fama salutava la piazza ancora calda per rinfilarsi di gran fretta nell’auto blu verso la successiva tappa del tour elettorale, in ritardo sulla tabella dei comizi come l’orchestra del capodanno di Fantozzi alla mezzanotte: altri valvassini lo attendevano per l’incoronazione, altri spadoni da sfoderare, altre folle da accontentare e rassicurare con veementi promesse che, inevitabilmente, pouf, sarebbero sparite dall’agenda all’indomani come uno splendido fiore notturno di cactus.
Siamo avvezzi, insomma, al red carpet del Potere che si autocelebra sotto elezioni, ma da quando la passione civile e politica ha definitivamente ceduto alla meschineria dell’orticello e la statura dei Craxi, dei Berlinguer, dei De Mita, dei Fanfani, perfino dei Berlusconi, si è rincarcata nella minuteria artritica degli ex loro portaborse oggi al potere, lo spettacolo si è fatto spettrale e insieme tristarello, come in tv certe attardate showgirl che agognano lo stesso pubblico dei tempi d’oro fingendo che il new look dei tiraggi chirurgici, dei botulini e dei flou allampanati dei riflettori possano ingannarlo.
A farci rimpiangere quei tempi gloriosi senza tuttavia averne nostalgia, la considerazione che almeno allora i valvassini di provincia non erano solo santini portavoti pescati a casaccio, avevano maturato anch’essi nelle scuole di partito in cui erano cresciuti un’autorevolezza di presenza, pensiero, lucidità e visione che consentiva loro una voce in capitolo nelle segreterie di partito nazionale come nei bilanci ministeriali, uno spazio di manovra nei gruppi parlamentari e nella ridistribuzione di fondi, per realizzare progetti per la terra che li aveva eletti.
Senza entrare nel merito di quanto quei progetti si siano poi rivelati opportuni, utili e tesi al bene comune, è certo che se quei politici offrivano raccomandazioni o voti di scambio almeno si era certi avessero capacità, competenze e occasioni di garantirli.
Ma quei tempi sono finiti. Il Potere si è concentrato in stanze decisionali sempre ristrette e impenetrabili, è diventato acefalo, (tanto che non si sa chi davvero comandi e con chi prendersela per i danni prodotti), apolide perché non ha paese, né sede né luogo deputato alle decisioni ma insegue le schizofreniche manovre sovranazionali come un fotone impazzito in un campo magnetico.
I personaggi sui troni delle superpotenze, finché non disturbano gli interessi delle lobby che rappresentano o ancor meglio sanno distrarre le masse da questi, è lasciato libero di giocare al Cesare che fa le bizze con le sue colonie, minacciando embarghi e ritorsioni, aggredendo terre limitrofe, scacciando emigrati, staccando e riaprendo con ricatti meschini i rubinetti alle colonie.
Cosa volete conti per un potere così globalizzato e inaccessibile un misero Bocchino che viene a venderci le sue spurie elucubrazioni politico-filosofiche, una compassionevole Carfagna dal nuovo look di influencer umanitaria che scende a farsi un selfie con l’operaio licenziato in cerca di risposte, il giullare Salvini ministro che in tre anni di promesse di salva-italia è riuscito a malapena a portare a casa le multe del codice della strada se non, figurarsi, un qualsiasi rappresentante dell’opposizione che di progressista rifiuta pure l’attributo che non porta più voti?
Il potere centrale è solo l’avanzo puntellato e maltenuto di un’eredità smarrita in cui si muovono spettri, fugaci apparizioni sui monitor delle fiction che recitano, interessante per la gente giusto il tempo di un click, e poi via verso il successivo post della ricetta di un’amatriciana vegana.
Per questo ha perso ogni senso inseguire e omaggiare queste figure e i loro pupilli, appendersi alle sigle di partito ormai vuote di consensi e valore, pietire fondi e risorse che chi li promette non saprebbe dove ritagliarsele nei risicati pareggi di bilancio.
Ricominciare invece proprio dai territori per restituire un senso di democrazia e concretezza dove ancora si può avere il polso della realtà, puntare sulle migliori risorse del posto scelte fra i pochi rimasti e i tanti emigrati nel confronto fra il quotidiano combattimento sul luogo e le competenze maturate altrove, valorizzando le ricchezze del patrimonio con quanto si riesce a importare dalle esperienze più riuscite fuori dai confini.
La comunità sono stanche della lenta eutanasia delle periferie del potere e del loop dei vecchi minestroni di maggioranza ormai anacronistici, fatti di nomine, ripensamenti, tradimenti, commissariamenti, continue elezioni: vogliono, senza averne nemmeno la consapevolezza, tornare a vivere, sentirsi in diritto di tornare a sognare in grande, oltre i rattoppi di asfalto e i ritiri della monnezza che dovrebbero essere la base scontata di un’amministrazione locale.
Pretendere l’impossibile, come quando in passato la città si indebitava facendo colletta per permettersi un teatro di cui ancora ci vantiamo e che, allora come ora, sembrava non ci si sarebbe potuto permettere.
Antonio Pizzola
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