Restano gli occhi

Nei primi giorni di gennaio 2020, fra le notizie di cronaca estera, cominciammo a leggere di una pericolosa polmonite di origine misteriosa, che stava provocando vittime in Cina. Allora ci sembrava una cosa tanto lontana e meno importante rispetto a quelle di cui era piena la nostra vita, che scorreva frenetica, divorando momenti, giorni e mesi, quasi senza riuscire a coglierne il gusto.
Il 20 febbraio 2020 fu scoperto il “Paziente 1 italiano” e l’11 marzo venne dichiarata la pandemia.
Da quel momento siamo stati costretti a rallentare, i nostri cento problemi quotidiani sono diventati duecento e abbiamo dovuto freezare la maggior parte delle cose belle, che sono ancora in attesa del disgelo.
Nel primo periodo di emergenza sanitaria le mascherine erano obbligatorie, ma introvabili e ognuno si arrangiava come poteva. Io ho utilizzato ventagli di carta da forno che speravo servissero a qualcosa, oltre a impedirmi di respirare, fino a quando ho scoperto di avere in cantina una confezione di mascherine antipolvere che odoravano di muffa.
E’ passato un anno: le mascherine sono ancora obbligatorie, ma facilmente reperibili, certificate, testate, calmierate, colorate, griffate e leopardate.
Sarebbe bello poter dire che ormai ci siamo abituati a questo nuovo modo di vivere, ma non è così. Siamo solo rassegnati.
Avevamo intuito che la lotta al virus sarebbe stata lunga, ma sta diventando troppo lunga e dire siamo stanchi è un eufemismo.
Ci sentiamo inquieti dentro e fuori casa e guardiamo con circospezione il passante con la mascherina sotto al naso, la signora che tasta la frutta al supermercato senza guanti e pure un figlio che torna da una evitabile passeggiata.
Tutte le battaglie intraprese dagli adolescenti per contrattare sull’orario di rientro del sabato notte sono state rese vane da un decreto più autoritario e convincente di qualsiasi genitore.
Alle 21:45 di ogni sera, in strada c’è un grande affanno di piedi e motori per tornare a casa in tempo. In tempo per riflettere su ciò che ci è capitato e sul vuoto che dalle 22 riempie le città, fino a farle scoppiare di tristezza.
Da qualche giorno siamo gialli, gialli e malinconici: le restrizioni si sono allentate e qualcosa in più è possibile fare, ma la paura rimane e con essa il voler proteggere le persone più fragili.
Il Covid non è più l’unico titolo importante dei giornali, ma è sempre presente in un macabro sottofondo, visto che ogni notizia lo riguarda: la crisi di governo, la situazione economica, i problemi della sanità, quelli sociali e persino Sanremo.
Probabilmente con la pratica del distanziamento sociale abbiamo perso un po’ di simpatia, ma l’empatia è cresciuta. Non dobbiamo neanche sforzarci di metterci nei panni degli altri, perché siamo tutti nella stessa barca e tanto stanchi di remare.
Io ci ho provato a uscire, senza un valido motivo, dalla sicura tranquillità della mia casa che certi giorni mi va un po’ stretta.
Era una di quelle mattine in cui il mondo sembra un po’ più bello e la vita ci ricorda quanto è preziosa: c’erano il sole, il mercato e i saldi. Ero inebriata da suoni, profumi, luci e colori.
Poi ho incontrato un’amica che non vedevo da tanto e, in un istante, ho sentito sulle spalle il peso di tutto l’ultimo anno, perché fra negazionisti, disciplinati, festaioli e menefreghisti, noi due, in quel momento, eravamo semplicemente umane.
Due persone che sentivano il bisogno spontaneo di abbracciarsi, baciarsi, stringersi le mani e parlare faccia a faccia con l’intera faccia, senza queste mascherine che ci rendono tutti uguali, almeno dal naso al mento.
Ci guardiamo e a stento ci riconosciamo. Ci parliamo e spesso non ci capiamo.
Per fortuna restano gli occhi. Ora siamo costretti a guardarci tutti negli occhi, non c’è imbarazzo che tenga e, se con le labbra possiamo sorridere anche quando il realtà siamo tristi, gli occhi non mentono mai: si riempiono di luce e rughette quando un sorriso è sincero.
La nostalgia per quegli anni in cui avevamo sempre fretta e le attese ci facevano irritare, si scontra oggi con un presente che ci ha insegnato ad aspettare (che passi, che si possa, che migliori, che aprano, che trovino una cura).
Ma di luce, rughe e attese noi donne ce ne intendiamo e quel giorno, oltre ai colori del mercato, al profumo del pollo arrosto e alla luce del sole, mi sono portata a casa il “sorriso” della mia amica e una promessa che un giorno manterremo…dopo un’attesa che ne varrà la pena.

gRaffa

Raffaella Di Girolamo

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