Traversata del monte Rotella: prospettive in cammino

Quando iniziano le escursioni? Quando infiliamo gli scarponi? Quando muoviamo i primi passi? O quando cominciamo a pensarle? Questa escursione inizia lo scorso autunno, quando Francesca, guardando il monte Rotella chiede: dove finiscono le montagne?

“Questa finisce più o meno qui” risponde Savino all’altezza della  nuovissima rotonda che frattura la Statale 17 a metà strada fra il cimitero e l’ospedale di Sulmona. Da qui nasce l’idea di traversare il monte Rotella da Pescocostanzo a Sulmona. L’intuizione si trasforma un po’ nel tempo e diventa “da piazza a piazza”.

Partiamo una mattina di inizio settembre da piazza del Municipio a Pescocostanzo alle 7. L’arrivo è lontano 26 chilometri, diversi metri di dislivello, un cielo più che incerto e la dorsale di una montagna che conosciamo solo a pezzetti. In piazza, mentre ci facciamo benedire dall’acqua della fontana, le luci del paese si spengono. È finita la notte.
Saliamo il paese, passando accanto ai residence e alle seconde case che dagli anni Sessanta in poi hanno riempito i lembi esterni del paese, allargandolo sempre di più. Su un balcone ci sono ancora le lucine di Natale: l’abitare intermittente lascia il segno. Una pioggerellina sottile accompagna il primo chilometro fra le vie del paese insolitamente silenzioso e libero dal chiasso dei turisti e dalle polemiche dell’estate. I suv luccicanti parcheggiati davanti le case cozzano con i passeri e le gazze che cinguettano a un nuovo giorno. È il primo settembre e le campane del mattino ci salutano. 

Arrivati agli impianti sciistici abbandoniamo l’asfalto. Il sole non sorge coperto da una coltre di nuvole, la pioggia va e viene ma ci lascia noncuranti. Le piste da sci in estate sono un luogo alieno: squarci nei boschi, piloni di metallo e improvvisate carrarecce segnano il fianco della montagna. Noi risaliamo silenziosi il sentiero T3 che segue il fondo della pista Panoramica. In cresta incrociamo il sentiero T2 che ci porterà fino al cimitero di Sulmona. Tutt’attorno sono gli altopiani maggiori d’Abruzzo a rubare la scena: quello delle 5 Miglia, il quarto Grande che porta verso il Bosco di Sant’Antonio e i restanti quarti della campagna pescolana. Le pezzature di colori diversi dei campi talvolta arati, talvolta lasciati a maggese ricordano una presenza umana quassù del tutto assente. Boschi e montagne a perdita d’occhio completano l’orizzonte mentre il cielo ancora cinereo continua a buttarci addosso una pioggia intermittente. La statale 17 ci scorre parallela in basso, sul suo asfalto automobili e camion come tante formichine impazzite. Pare di essere sulla cresta di un drago silenzioso e addormentato, il sentiero è la sua scriminatura. Cima della Fossa è il primo traguardo volante della giornata e poco dopo è già la vetta del Monte Rotella a 2129 metri. 

Sono soltanto le 9 ed è già il momento del primo panino. L’arrosto di tacchino nel pane incontra formaggio e rucola. Il giorno prima in un supermercato di Sulmona tra pecorini sardi e caciotte emiliane non avevamo trovato nemmeno un formaggio pescolano. Dopo tutta l’estate passata a mangiare pezzi di cacio dell’altopiano di altissima fattura fa riflettere che questi formaggi non riescano ad arrivare a valle. Imprigionati in sistemi di distribuzione che fanno schizzare le merci nelle reti lunghe del valore o le marginalizzano nella dimensione di auto-produzione della piccola impresa. In questo ricatto schizofrenico, la qualità e la sostenibilità produttiva  di alcuni prodotti restano invischiate come mosche nel miele.

Riprendiamo il cammino e la Valle Peligna e Sulmona lontanissime compaiono alla vista. Lungo la cresta che ora inizia a degradare nuvole si attorcigliano e banchi di nebbia risalgono i versanti. Mentre scendiamo inizia la conta delle cime circostanti: quello è il Porrara, quello il Genzana, guado di Coccia e monte Amaro. Un gioco che rivela la comprensione del paesaggio, aiuta a connettere territori, a immaginare itinerari futuri.

Poco dopo Pettorano, le forme del territorio iniziano a parlare. I paesi che vediamo giù a valle aiutano a orientarci. Osservarli dalla montagna ci fa capire diversamente le loro connessioni. Vediamo il cavalcavia fendere la montagna e connettere due paesi.  La coda grossa e spessa della strada statale: una vena larga che apre le coste della montagna. Poi il filo morbido della via napoleonica che si mantiene bassa in quota, non disturba la montagna, curva seguendola. Una ferita di superficie. La traiettoria mette in prospettiva: fa vedere le formazioni dello spazio come oggetti di volta in volta diversi.

All’improvviso un suono gutturale e cupo: il bramito di un cervo allarmato dalla nostra presenza che si perde in un banco di nebbia e poi nel bosco. Quando poco dopo la nebbia si dirada, dei graffi marroni segnano il fianco della montagna. Un branco di una cinquantina di cervi si muove ordinato lungo una direttrice. Come un artiglio il loro transito segna il manto erboso lasciando tracce del passaggio. Poco oltre, un altro branco bruca sereno fra il prato e numerosi ginepri.

Percorrere la cresta non è lineare. Scavalchiamo di continuo a destra e sinistra. Si alternano faldoni piatti, con ruvide lame laterali. Ritorna la cresta con rocce appuntite. Poi la montagna si piega, cambia direzione. Scopriamo che percorrere una montagna nella sua estensione significa capirla nelle sue consistenze. Sentirla cambiare. La roccia è compatta e nuda: liscia e pura, senza imperfezioni poi acuta e nera. Infine torna calcarea, friabile: si spezza e insabbia il sentiero di calce bianca. Dopo il Terminone la montagna cambia volto. Lo spinone crestoso si fa largo e vallivo e scopriamo un Rotella diverso. Ancora qualche centinaio di metri ed è la volta di Pietra Maggiore: è mezzogiorno e mezza ed è ora di uno spuntino. Sul libro di vetta lasciamo un interrogativo: quand’è che un andare via diventa un andare verso? 

La crocetta di Sulmona, il monte Mitra è a vista e sarà il nostro ultimo traguardo volante prima dell’arrivo. La discesa però si rivela lunga e sfiancata dal sole. Un intontimento da stanchezza mista a fame e monotonia del cammino si impossessa di noi. A mano a mano che procediamo, cambiano temperature e climi. Dalla pioggia e il freddo di Pesco, ci addentriamo nel caldo afoso della valle Peligna. Scendendo di quota, riappare la vegetazione, assente in vetta. Mentre la salita è stata un tempo contratto, la discesa è uno spazio esteso e faticoso. A interrompere la trance è l’arrivo a Fonte Pacile: sotto il fresco di alcune querce riposano Mario e Francesco, due pastori con le loro greggi. Parliamo con loro di animali, parentele e paesi mentre riempiamo le borracce. Quando usciamo da quell’Eden inaspettato, il cielo è di nuovo in furia. In lontananza l’eco dei tuoni e le prime gocce del pomeriggio.

Il paesaggio cambia di nuovo e si riempie di pini e ginepri, di cisti e carpini. Aggiriamo la crocetta di Sulmona e ci immettiamo nell’ultima discesa scortati da un vecchio muro a secco mentre la Valle Peligna è preda del temporale. Il fronte di nuvole ci mette poco a raggiungerci. Gli impermeabili fanno il loro dovere e la pioggia si rivela quasi catartica. Pioggia che lava, pulisce ma anche perdona. Pioggia che libera e benedice l’impresa.

Siamo ormai all’altezza del cimitero e decidiamo di non seguire il sentiero che scende fino al piazzale, ma di continuare dritti per raggiungere la coda della montagna e calpestarla fino in fondo. E così purtroppo non è perché dopo aver aggirato un serbatoio della Saca e aver zigzagato su stradini di animali, nei suoi ultimi metri la montagna si rivela urbanizzata: case e giardini ci sbarrano il cammino. Pieghiamo a sinistra verso uliveti abbandonati ed è di nuovo asfalto, ormai otto ore dopo l’ultimo contatto. 

La fine della montagna è terra bruciata e pioggia, rumore di macchine. Fili, pali e piloni, cancelli di ingresso di ville periferiche, pezzi di lapidi del cimitero. L’uomo abita questa montagna. La fine di una montagna sono case e pollai con recinti e selvatico: una coppia che si apparta in macchina e la statale che rumoreggia. Non è la montagna dell’ escursionismo, ma la montagna dell’abitare, mangiata dal suburbano. 

L’impatto con la città è distopico. Automobili sfrecciano, schizzano acqua e impestano l’aria col puzzo di scarichi. Il rumore di operai al lavoro sul manto stradale assordisce più del dovuto e confonde. Camminiamo l’ultimo chilometro stanchi e felici, bagnati da un’acqua che non smette di cadere ma poco ci importa ormai. In bocca abbiamo il sapore dell’impresa quando attraversiamo corso Ovidio con zaini e scarponi come extraterrestri.

Lasciando la montagna, pensiamo che questa alta via potrebbe essere un’ottima strada di collegamento fra Alto Sangro e Valle Peligna, magari intramezzata da un rifugio attrezzato. Una direttrice rivolta agli amanti del turismo lento, ai camminatori, agli abitanti. Un’infrastruttura naturale, lunga e faticosa che non presenta particolari pericoli o difficoltà. Per la natura affusolata della montagna è impossibile perdersi e di tanto in tanto ci sono vie d’uscita verso l’abitato: Rocca Pia, Pettorano, Cansano e il Bosco di Sant’Antonio. In un modo o nell’altro quando si pensa allo sviluppo del territorio si finisce a parlare di turismo, ma questa direttrice al contrario potrebbe essere innanzitutto una via di attraversamento interna. Dovremmo essere noi del comprensorio i primi a percorrerla. Un tipo di cammino che aiuterebbe a guardarsi da un’altra prospettiva: dalla prospettiva Rotella.

Camminare aguzza la vista, affina lo sguardo mentre i pensieri prendono aria, si ossigenano. Connettere due valli attigue con il cammino aiuta a capire un territorio dall’interno, addentrarsi nel paesaggio che fa da sfondo alle giornate quando affacciandosi al balcone al tramonto, gli ultimi raggi di sole rosacei colorano i profili ingrossati di Porrara, Pizzalto e Rotella. 

Camminare è anche comprendere cosa abita una montagna: le specie vegetali che resistono ai disboscamenti o quelle residue dei cantieri di rimboschimento. Le specie animali popolose e altre a rischio estinzione. Equilibri ecologici precari e invasività della presenza umana. La montagna porta i segni dell’abitare e del produrre: porta i segni della mobilità antropica e dei modelli di sviluppo. La montagna racconta storie umane e non umane. Racconta, a seconda di come decidi di attraversarla, che possibilità le dai. 

Camminare è infine scegliersi una prospettiva. Scorgere pezzi di futuro, opportunità del presente, segni del passato impressi nel paesaggio. Attraversamenti possibili e visioni impreviste: in attesa di essere raccolti. Nove ore e ventisei chilometri dopo, in piazza Garibaldi si conclude il nostro cammino. Restituiti dalla montagna, torniamo alla vita urbana dalla prospettiva Rotella.

Savino Monterisi e Francesca Sabatini

2 Commenti su "Traversata del monte Rotella: prospettive in cammino"

  1. Meraviglioso ….Si …..Maraviglioso

  2. Una bella narrazione, in tempi di linguaggio violentato all’uso “social” è come un’isola in mezzo al mare o un’oasi in mezzo al deserto. Complimenti

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