Una passeggiata di libertà

Non so se era un maggiolino o un maggiolone. Ma la Volkswagen grigia di Giorgio a volte è stata la nostra salvezza. Del figlio, amico e compagno tra i banchi. La mia e di altri ragazzi che abitavano a sud della città. Alla parte opposta del liceo. Dove ogni giorno, con acqua, afa, vento, sole o neve arrivavamo a piedi. Stessa cosa per ritrovar la strada di casa dopo il suono dell’ultima campanella. Cascasse il mondo. Solo lui, ma solo qualche volta, ci ha sottratto al diluvio imbarcandoci su quella carrozza indistruttibile. Dove i tergicristalli, corti e duri, battevano forte, facendo più rumore della pioggia che picchiava su quelle lamiere. Per i nostri genitori, tutti, andare e tornare dalle lezioni era solo affar nostro.

Bello però pigiare ogni mattina, preciso come la Sweda, il citofono del mio amichetto. Ero un po’ sbarellato, la mia puntualità denotava una latente schizofrenia. La prima sigaretta l’accendevo a distanza di sicurezza, dopo aver sbranato la salita del quartiere. La seconda prima di aggirare a manca porta Napoli, facendo attenzione che mio padre, già in ufficio, potesse beccarmi. Ma ero lesto e allenato a coprire l’emmesse con la mano chiusa a rostro, infilandola nella tasca del cappotto o dell’impermeabile. Oppure, se il tabacco era quasi finito, riuscivo a far sparire il mozzicone nella bocca, tenendolo in equilibrio dal filtro con la lingua. Che goduria. Era una passeggiata di libertà.

Poi il pullman verde che legava l’ospedale alla stazione diventò giallo. Lo assaltammo per qualche mese. Solo per gioco, mica per risparmiar fiato. Alla prima fermata, infatti, saliva a bordo un preside, non il nostro. Ma capo supremo di un altro della compagnia. Che rimaneva impietrito sul sedile di formica, mentre noi dal fondo del bus urlavamo senza vergogna il soprannome dello stimato professore. Che risate. Era un viaggio di libertà.

A pensarci bene non c’è giorno della mia vita da studente che qualcuno di famiglia mi abbia scortato. O che un’auto mi aspettasse fuori il portone. Addirittura alle elementari, dopo il rompete le righe, se vedevo nonna a caccia del mio sguardo scappavo via. Come un bulletto di strada. Era una fuga di libertà.

Oggi invece camminare è roba da sfigati. Se non hai un motore sotto il culo non sei nessuno. Ma ho giurato che mai avrei giudicato atteggiamenti e mode dei più giovani. Soprattutto con paragoni dei miei tempi. Allora ecco che mi garba, eccome, l’idea e l’inchiesta di “Bring your Bike” sulle strade (non) scolastiche: vorrei far sparire le file di macchine impazzite davanti le scuole. Motorini, scooteroni e minicar. Mamme stressate alla ricerca di un parcheggio. È un miraggio di libertà.

Dylan Tardioli

1 Commento su "Una passeggiata di libertà"

  1. Condivido con nostalgia, ma avete mai provato a sollevare lo zaino di uno studente?
    A noi bastava un elastico o una tolfa… Altri tempi, purtroppo.

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