Bambole

Il mio primo bambolotto, regalo di zia Lidia, si chiamava Sandrino. Aveva i capelli ricci e scuri, gli occhi color nocciola, era asessuato e rigido: ottimo per percuotere i fratelli durante i litigi quotidiani.

Sandrino non aveva alcun optional, tranne le palpebre che si chiudevano quando era in posizione sdraiata. Dopo qualche tempo subentrò un’anomalia a un occhietto e il povero bambolotto assunse uno sguardo inquietante, con una palpebra perennemente tremula e a mezz’asta.

Mi sono sempre chiesta come mai l’avessi chiamato in quel modo, nonostante avesse un vestitino e i lineamenti da femminuccia. L’ho capito solo ora con una ricerca in rete: “Sandrino” era la marca del giocattolo e sicuramente io, bambina timorosa e insicura, non ebbi il coraggio di contraddire la scritta a caratteri cubitali sulla scatola contenitrice.

In seguito arrivarono i “Cicciobello”: lo avevo europeo, africano e cinese. I modelli eschimese e indiano non li ottenni mai per sopraggiunti limiti di età.

Erano delle dimensioni di un neonato, ma con la fisionomia di un bambino di dodici mesi. Avevano il corpo di pezza, per poter essere coccolati e probabilmente per proteggere i fratelli durante i litigi quotidiani, ma arti e volto erano di plastica.

Togliendo il ciuccio al bambolotto, si azionava un piccolo giradischi che gli permetteva di piangere ininterrottamente. Narra la leggenda che il lato “b” del micro disco in vinile, inserito nel ventre di gomma piuma, contenesse la traccia di un’allegra risata, ma alla mia generazione toccò lo snervante pianto del lato “a”.

Probabilmente il tutto era atto a stimolare e appagare l’istinto materno in noi bambine, invece a me sviluppò il senso di fastidio verso i lattanti frignoni.

La caratteristica che più apprezzai dei pupazzi piangenti furono le batterie esauribili. Che sollievo quando il mio bambolotto si silenziò per sempre!
In seguito giunsero fra le mie mani le Barbie: rigide, facilmente impugnabili e contundenti. Mio fratello non aveva alcuna speranza con il suo Big Jim tarchiatello e arrotondato: le lotte fraterne quotidiane le vincevo tutte io.

Ho letto qualcosa circa i complessi che Barbie, con il suo corpo statuario, i lineamenti perfetti e il guardaroba da ultra miliardaria rischia di provocare nelle bambine.

A me non è mai venuto in mente di paragonarmi a quella poverina che sbatacchiavo a destra e a manca, dimenticandola per settimane in fondo ai cassetti e ripescandola quando i capelli le erano ormai diventati una stopposa massa informe.

Allora ci pensavo io a rinfrescarle il taglio e: -Ora chi è la più bella del reame, cara “Barbie Alopecia”?

La vera fortuna era possedere Ken, con i suoi inattaccabili capelli di plastica, da far accoppiare con tutte le Barbie (racchie dopo l’apposito trattamento).

Ma quali complessi, chi mai avrebbe voluto essere come una ragazza così: immersa nel lusso e nel divertimento, ma dimenticata, sfregiata e con un fidanzato comunitario?

All’età di dodici anni persi completamente interesse per le bambole e mi buttai sui peluches morbidi, grandi, caldi e profumati: perfetti da stringere in certi pomeriggi troppo lunghi, affondandoci la faccia per nascondere una grande gioia, un grande dolore o una grande noia.

Bei tempi…o forse più indispensabili e fondamentali che belli.

Ebbi di nuovo a che fare con le bambole quando nacque mia figlia Lisa.

Lisa negli anni ha posseduto balocchi che mangiavano, piangevano, digerivano, ballavano, cantavano, si ammalavano e andavano di corpo.

Presto le batterie di quelle bambole esagitate si esaurirono ed esse tacquero per sempre. La mia bambolina vera invece non ha mai smesso di mangiare, digerire, ballare, parlare, ammalarsi e chiamare “Mamma!”. Mi sono divertita per tanti anni a vestirla di rosa, tulle, merletti e strass, poi ho capito che il suo colore preferito è il nero e che odia i particolari appariscenti.

E’ un modello performante: ride e canta ad alta voce, ma piange in silenzio e di nascosto, o almeno credo, perché io non glielo vedo mai fare e invece tutti hanno bisogno di piangere qualche volta.

C’è chi sfoga le proprie lacrime addosso a un peluche, chi sotto la doccia e chi per l’eliminazione da un reality del ballerino preferito. A volte si ha bisogno di una scusa per spostare un mattone, la diga viene giù e si piange per tutto: a ritroso, a priori e a prescindere.

Finché le batterie si esauriscono e la bambolina torna a sorridere.

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