Fabrizia, Luca e Anis

Questa è una storia triste di poco più di un anno fa, dimenticata nella concitazione di continue emergenze e paure come un passato remoto che non dice più nulla.

Non c’è un anniversario imminente per ricordarla, nessuna ragione che sembrerebbe legarla al presente, nessun riferimento alle questioni centrali di questa grottesca, penosa e inutile congiuntura elettorale nazionale.

Se non fosse che, a pensarci bene, questa triste storia racconta il tema centrale del futuro prossimo, lo stesso che le forze politiche contrapposte evitano in qualche passaggio seminascosto del programma elettorale, oppure trasformano strumentalmente in sete di sicurezza, strillata dal palco mediatico al popolo pecora per trarne consenso.

 

C’erano una volta tre ragazzi, Fabrizia, Luca e Anis.

 

Fabrizia ha poco più di 30 anni.
Viene dall’Abruzzo, più o meno dove comincia il Sud.
Sul curriculum ha scritto laureata, provvista cioè di quel lasciapassare regalo dei genitori per il paradiso, la luccicante Berlino dove i giovani vanno a cercarsi un futuro.
Più o meno come i suoi nonni e i loro nonni contadini, partiti secoli fa ad inseguire lo stesso miraggio di un farsi da soli lontani dalla terra misera che, quando andava bene, dava solo patate.

Su Facebook Fabrizia ha scritto per l’integrazione fra i popoli, che una del sud che ha studiato lo sa cos’è la discriminazione che non distingue la pecora nera dal gregge, e, riconoscendone la mistificazione,  ne denuncia l’orrore e se ne tiene distante.

 

Luca di anni ne ha poco più di venti.
Viene da dove il Sud finisce, remota provincia siciliana dal nome singolare, che nel continente si usa per significare fuori dal mondo.
Partito anche lui migrante grazie alla spintarella di un qualche paesano emigrato ai suoi tempi a fare fortuna nell’Arma, ché al sud servire la patria a 1200 euro lontano da casa è già privilegio.
Luca ha postato su Facebook una foto dove faceva il saluto fascista, che i giovani come lui, distanti dal fascismo più dei nonni che non hanno mai conosciuto, credono forse che la patria e l’onore a cui debbono il miraggio di quei 1200 euro, si saluti così.
Ma quella foto, imbarazzante per l’Arma e la Patria che l’hanno decretato eroe suo malgrado, è fatta sparire come un mazzo di maria da una caserma della finanza.

 

Anis invece non ha nemmeno 30 anni.
Figlio della terra più a sud del sud che ancora aspetta e spera che già l’ora si avvicini, l’ha lasciata in una primavera di gelsomini, fiori che laggiù non attecchiscono, illuso da un lucignolo su un barcone stracolmo di fuggiaschi, vogliosi come lui di primavere.

Ma il barcone l’ha spiaggiato in un altro sud, giusto poco più a nord, lo stesso sud da cui Luca poliziotto fuggiva, scaricando il suo carico in un recinto di attese dove un angelo chiamato Shengel dicevano sarebbe venuto a prenderli per condurli nell’agognata terra dei gelsomini.

Testa calda quest’Anis, scrivono i verbali della polizia, da raffreddare subito in carcere prima che le sue incandescenze degenerino, e poi via rispedito a casa sua, che nel sud non c’è posto per i terroni dei terroni che rubano il lavoro e le tradizioni da cristiani di buona volontà.

La detenzione costa e l’Europa dei diritti non può permettersi di mantenere le teste calde, che è giusto, dice il continente che ha inventato la Giustizia, rispedire al mittente come indesiderate.

Ma a casa sua, dove nel frattempo la primavera è sfiorita in un rinnovato autunno di violenze e sopraffazioni, hanno già troppi problemi per desiderare gli indesiderati come Anis che nel frattempo, scontata la pena, è libero di non essere, come una frazione di zero, impossibile per postulato.

 

Senza casa e identità Anis è lasciato nel limbo in cui l’Europa della Carta dei Diritti, utile quando al bagno finiscono i rotoli, lascia vagare i giovani nessuno, giusto un po’ più sfigati dei migranti connazionali che, almeno, hanno diritto a migrare.

 

Deve essere allora, riferiscono i servizi segreti che se non sono deviati non servono a una minchia, che il facinoroso soggetto deve essersi radicalizzato, con questo participio passato che rimanda ad un’utopia di diritti.

O ad un germoglio di patate ficcato a forza in una zolla della Piana del Fucino.

Caduto nella trappola dell’Isis, acronimo terrifico che racconta il drago a tre teste che solo la spada di un San Giorgio a cavallo avrebbe potuto recidere, Anis sparisce nel limbo come un peccatore dantesco a corto di contrappasso.

 

 

Fin qui Fabrizia, Luca e Anis, ragazzi del sud più o meno profondo, sono tre nessuno qualunque, indifferenti al mondo che abitano come tre zero virgola percentuale nelle statistiche dei bilanci istat.
Sconosciuti fra loro come tre spermatozoi nel caldo fiotto di un orgasmo che corrono paralleli verso l’unico ovulo che lampeggia lontano come il paese dei balocchi.

Coetanei dallo stesso destino eppure diversi perché numeri di tre sottoinsiemi distinti, uno profugo sia pur senza guerra, uno migrante interno come un assorbente in giorni di flusso scarso e l’ultima, cervello in fuga, sineddoche ipocrita per definire una medesima sfiga dipinta a speranza di più roseo destino da privilegiati.

 

Tre giovani nessuno non scrivono la Storia che ben altri poteri dettano per loro, nemmeno la sfiorano come formiche operaie destinate solo ad alimentare l’arnia comune, mentre sulle loro teste volano a contendersi la mecca di pozzi e gasdotti, finti alleati che si bombardano per spartirsi la torta  finti arabi con le tovaglie da picnic in testa.

Ma la Storia è avida di formichine operaie perché qualcuno il lavoro sporco lo deve pur fare e all’occorrenza se le va a stanare nel formicaio quando necessitano zampe operaie, e vittime. Che le vittime tornano utili ad alimentare l’odio che serve alla Storia per farsi.

E, sopra tutto, come sempre da che storia è storia, quando serve un sacrificio estremo che faccia vittime che generino odio che faccia la Storia, sbuca un dio che lo pretende in cambio di un qualche paradiso di vergini e gelsomini che se non ora quando, forse in un non tempo ultraterreno arriveranno.

È così che i nostri tre ragazzi nessuno, migranti dallo stesso sud verso il personale paradiso di gelsomini, al servizio di patrie diverse eppure egualmente a loro indifferenti, incrociano i loro destini di formiche sacrificali al servizio della Storia che si deve pur scrivere.

 

 

Anis prende un camion, lo insozza di orme, ci lascia dentro un passaporto, e si butta nella folla di un mercatino berlinese.
Dove Fabrizia, in un ritaglio di pensiero pre natalizio, è venuta a cercare un addobbo straniero per l’albero che l’aspetta a casa.
Un attimo e la Storia che incrocia destini si riprende quanto pretende.

Fabrizia è travolta.

Anis fugge, o almeno così dice l’Ansa. Salta da treno a treno, di paese in paese come ogni invisibile nessuno nella frenesia distratta di un natale ormai prossimo. Per finire nella stazione di una provincia desolata e nebbiosa di un nord Italia che, come tutte le periferie del mondo, assomiglia tanto al sud da cui è fuggito.

Dove Luca, precario poliziotto coatto in una pantera annoiata, fa il turno ancora poche ore per tornare alle brevi ferie del natale di casa.

Che fa un nessuno di altrovi nella notte nebbiosa di una sperduta provincia di un nord prenatalizio?

Nemmeno il tempo di chiederselo e Luca si trova di fronte ad Anis, dice l’Ansa, come duellanti di un’improbabile mezzanotte di fuoco, come soldati di una guerra di piero, sparagli ora, destinati all’ombra di papaveri rossi.

Un attimo e Anis è steso sul selciato coperto da un lenzuolo di carta argentata.

Anis, Luca e Fabrizia non si sono mai conosciuti, si sono solo sfiorati nei loro ultimi sguardi attoniti al mondo.

Per la Storia che li ha pretesi Fabrizia resta l’angelo innocente sacrificato, Luca il sangiorgio a cavallo che l’ha vendicata, Anis il drago mostruoso che l’ha strappata ai suoi cari.

Di Anis, profugo in cerca di primavere, resta alla Storia il selphie video che lo inchioda, che da un imprecisato non luogo dell’Europa dei lumi grida il suo giuramento di vendetta ai porci infedeli capitalisti occidentali che gli hanno rubato la vita.

Con la benedizione di Allah che gli hanno insegnato Akbar.

 

Antonio Pizzola

 

 

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