Il Rifugio non è una gabbia

La reinvenzione della Memoria Storica per l’Italia post-covid

La quarantena che stiamo vivendo è, agli occhi di uno studioso dei fenomeni sociali ed urbani, un esperimento a larga scala di straordinaria rilevanza, tale da restituire la sensazione, che si fa certezza, che il dopo dovrà necessariamente essere diverso dal prima. 

Ciascuno di noi ha avuto modo di convivere nel suo “dentro”, luogo fisico e mentale di rifugio rispetto al “fuori” che nasconde rischi di comportamenti antisociali oltre che sanitari. Ciascuno di noi oggi ha maggiore coscienza di ogni angolo del suo rifugio, sia a scala domestica, sia di territorio circoscritto entro cui muoversi, la stanza privata, il nucleo minimo di condivisione, il tratto urbano verso i luoghi necessari e possibili del fuori.

Il rifugio è diventato sinonimo di socialità minima, di lavoro, di sfogo, di fruizione di contenuti culturali ma anche di confronto con se stesso e i propri limiti, tanto da poter oggi dire con certezza cosa ci sembri non funzioni negli ambienti solo fino a ieri vissuti nel raro tempo libero.

Abbiamo capito che la densità edilizia, assunta a modello progettuale nelle città contemporanee che svettano concentrando il maggior numero di abitanti in un suolo sempre più raro e costoso o si espandono esponenzialmente nelle baraccopoli infinite degli smisurati agglomerati urbani, è diventata un problema prima che sanitario sociale ed economico.

Una nutrita schiera di architetti comincia a ipotizzarne lo svuotamento, sia come conseguenza diretta della crisi epocale che viviamo, sia come necessità di interporre vuoti, piazze, aree verdi e spazi aperti, che diventino sia nell’ordinarietà che all’occorrenza, parte del nostro dentro.

Non può più accadere che ci vengano impediti campagne, boschi, prati e spiagge se il rischio di assembramento e contagio è prossimo a zero.

Il “dentro” deve essere un rifugio non una gabbia, questo il principio che deve muovere la rinascita del post-covid.

Per nostra fortuna in Italia i fenomeni distopici connessi all’inurbamento di massa sono limitati a pochi casi, il nostro è in grande maggioranza paesaggio di borghi, eredità di castrum romani o di feudalesimo medioevale.

E’ salvifico ipotizzarne il recupero se accettiamo insieme quella dimensione “intima” che ha caratterizzato per secoli la vita delle nostre comunità, investendo sul patrimonio di edilizia storica (prima che monumentale) non per farne un prodotto da marketing turistico ma per tornare a vivere in condizioni più umane. Un’ipotesi affascinante che però prevede una profonda trasformazione delle dinamiche oltre che della domanda della popolazione, una trasformazione che oggi nel qui e ora ha bisogno di scelte strategiche già nei meccanismi di progettazione.

Si pongono infatti delle domande nient’affatto scontate, innanzitutto su quanto siamo davvero disposti a tornare sui nostri passi, preferendo alla condivisione delle esperienze collettive dell’utopia urbana una visione più bucolica e altrettanto utopica, di cellule di convivenza minime isolate nei territori. Non possiamo però nasconderci, per non fallire miseramente con costosi recuperi se non realmente e quotidianamente vissuti, che la riduzione in piccoli contesti non possa prescindere dalla domanda di confort e di connessione al mondo, di ambienti sicuri e gradevoli, autosostenibili ed eco compatibili.

Se nei borghi o nei centri storici dobbiamo tornare per restituire vita in luoghi popolati di fantasmi, dobbiamo accettare che questi si modifichino adattandosi alle esigenze di confort che ogni rifugio pretende.

Si pone una sfida epocale imperdibile, grazie anche ai finanziamenti che il governo sta stanziando, di diventare modello nel mondo di qualità dell’abitare.

Attrattivi certamente anche dal punto di vista turistico e di investimenti stranieri, ma senza che questo sia l’obiettivo quanto il mezzo per evolversi, senza cioè cedere agli inganni della globalizzazione di segni, modalità e costumi non più tollerabile.

Rispondere all’appiattimento con l’unicità non significa chiudersi in anacronistiche politiche protezionistiche che non potrebbero rispondere alle sfide del futuro -già presente-, ma propagandando l’autenticità rispetto all’illusione, al falso storicismo, all’asfissia del vincolo.

Fare dei nostri borghi, dei centri storici come dei quartieri omogenei di ogni metropoli, comunità contemporanee indipendenti con capacità di piena autodeterminazione, vuol dire affrontare finalmente il nodo della nostra cultura, il rapporto con la memoria e con il patrimonio ereditato.

Salvarlo dalla rovina in cui versa, guardandolo non come feticcio di puntellamenti imbellettati da mostrare ai turisti ma come gioiello di famiglia da fondere per farne di nuovi, prefigurando la trasformazione in restauro, sostituzione, integrazione o demolizione con attenta e apregiudizievole valutazione. Le modalità con cui gestire questo complesso processo sono da reinventare, semplificazione e rimodulazione della tutela in primis, ma il principio sotteso non deve essere il sacrificio e la rinuncia ad un’eutanasia estenuante, quanto un’occasione di ripensarne una nuova storia, rigenerata e rigenerante.

Preferirei veder risorgere la vera L’Aquila trasformata in un borgo futuristico o tenermi la pessima periferia post terremoto senza qualità, come una milanodue decontestualizzata fra i monti dell’Appennino?

Antonio Pizzola

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