L’Arte del Déjà vù

Il deja vù, disse Morpheus a Neo che aveva visto due volte la stessa passeggiata dello stesso gatto nero, è un’imperfezione del Matrix, segnale di allarme che nel sistema sta cambiando qualcosa.

A distanza di vent’anni anni dal film un gruppo di scienziati svizzeri scopre che se il cervello ci riporta la sensazione di attimi già vissuti non è segno di arteriosclerosi o miracolo precognitivo quanto piuttosto un reset della memoria, una specie di antivirus che fa un check per segnalare e risolvere un conflitto nell’ippotalamo.

Nulla di preoccupante quindi, anzi finchè il cervello si attiva è vigile, in grado di risolvere autonomamente i conflitti e distinguere cosa resettare e cosa invece custodire come esperienza cognitiva autentica.

 

Estendendo il principio, quando si riaffaccia nel presente un’esperienza che ci ha già ammorbato nel passato, a dar retta alla materia grigia, dovremmo coglierne un segnale di allarme e provvedere a invertire il processo.

 

Certo, sarebbe fisiologico se una qualche esperienza già vissuta si riaffacciasse nel nostro presente magari come strascico di un passato ancora non completamente superato; ma se le reiterazioni si moltiplicassero esponenzialmente, se ogni passaggio del presente dovesse assomigliare inquietantemente agli errori già assimilati nel bagaglio collettivo tanto da apparirne come tragici copia-incolla, se subiti con mille difficoltà certi balzani esperimenti e certi fallimentari espedienti, se alla prova dei fatti certe paradisiache promesse si fossero rivelate purgatori, radici che nessun ortolano vorrebbe a far capolino dai suoi indicibili pertugi, beh, un segnale di allarme verrebbe da sentirlo.

 

Qualcosa che non va il matrix deve averlo prodotto.

Morpheus ci ordinerebbe di ressettare immediatamente e cambiare software.

Ma purtoppo noi gente umana non siamo eroi da fiction, né tutti scienziati svizzeri, niente più distante dalla materia grigia che governa i nostri singoli Io e che reagisce per forza evolutiva, senza dar retta all’intestino, né tantomeno alla sua ultima appendice muscolosa.

Noi siamo la Realtà, non l’Arte che la interpreta, non il Pensiero che l’anticipa e poi la forgia. Delle tante condizioni felici che i migliori fra noi hanno immaginato nella storia, delle tante teorie e delle tante allerte, dei film, canzoni e opere tutte che giuriamo abbiano accompagnato le nostre vite, niente, abbiamo preso solo i fallimenti, i rischi su cui ci avevano allertato, gli scenari più funesti.

 

E all’unisono li riproduciamo in loop, come una jam session di dee jay inceppati.

 

Possibile, verrebbe da chiedersi, che niente di quanto abbiamo imparato dall’Arte, l’ultimo livello della città di di Blade Runner,  il  monitor gigante nello stanzone di scrivanie del Grande Fratello, la barchetta che squarcia il cartone nel Truman Show ci abbiano prodotto quella sana angoscia da rigetto; ma pure il cassettino di sicurezza di Man in Black da dove un’umanità in miniatura pregava Willy Smith di dargli la luce ci abbia suggerito nulla; che gli stracliccati Principi Liberi  di prima serata o i  monologhi di San Remo non abbiano smosso di una virgola il loop in cui siamo cascati?

Si direbbe di si. Che forse è davvero la fine di tutto e l’ultima cosa che vogliamo è sentircelo dire, che l’Arte ci ammorbi con le sue lamentele per predirci il prossimo come e il prossimo quando.

Meglio distrarsi. Ridere.

Ripescare le barzellette più conosciute e sentirsele raccontare fino al logorio, inceppati in loop fino alla fine, che l’Arte è roba radical o la distrazione di una sera e, per il resto, un inutile dispendio di risorse.

Meglio mettere il cervello in una casa di riposo, a passeggio sul prato inglese.

Come Robert Redford e Jane Fonda, appunto, in A Piedi nudi nel Parco.

 

 

Antonio Pizzola

 

 

 

 

 

 

 

 

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