Perchè i call center perdono posti di lavoro. Prima puntata.

E’ una costante, ormai da dieci anni. “Il call center X è in crisi”, “Licenziamenti al call center, “Call Center scatta la solidarietà”. Ma qual è la ragione per cui un settore che ha avuto un vero boom all’inizio degli anni 2000 versa da tempo in condizioni critiche? Certamente la situazione è complessa e le ragioni sono plurali. Si tratta di mercato “interno” al settore, di mercato interno al comparto più generale del marketing e dell’assistenza ai clienti e di errori di tipo legislativo e di “policy”.

Dal 2012 mi occupo anche di questi temi, lavorando come lobbista di grandi aziende del settore e dell’associazione di categoria maggiormente rappresentativa. E’ un tema che tocca molto Sulmona e qualche volta mi sono anche “incrociato” con questioni che riguardavano la nostra Città.

Per capire davvero, però, serve fare un po’ di storia. Per questo ho deciso di dedicare qualche post (servono più puntate perchè non si può semplificare) alla crisi di questo settore. Soprattutto per socializzare l’esperienza lavorativa che ho maturato in questi anni, che mi ha dato un punto di vista un po’ diverso, dall’interno ma non troppo, di dinamiche che all’occhio esterno raccontano sempre della solita dinamica azienda-sindacato-lavoratori. Ma le cose non sono sempre così lineari.

Per capire non certo tutto, ma almeno di più, dobbiamo riavvolgere il nostro calendario a dieci anni fa. Erano i tempi del boom del mobile di prima generazione. Tutti al telefono ovunque ma nessuno connesso via dati. Un unica via di comunicazione. La voce.

Siamo nel 2007, durante il Governo Prodi II, il Ministero del Lavoro, guidato da Cesare Damiano diede lo stop all’utilizzo dei co.co.co. per i lavoratori del telefono. L’attività di ricezione delle chiamate, stabilì il dicastero di Via Veneto, è lavoro subordinato. Quindi nei call center chi è destinato al lavoro cosidetto “inbound” deve essere assunto a tempo indeterminato. Stiamo parlando di un lavoro a tempo indeterminato con le regole di allora. Con un articolo 18 rigido. Alle aziende fu dato un tempo limite per adeguarsi.

Alcune rispettarono quei tempi. Altre no. Le più serie si, le meno serie no. Ovviamente sono previste sanzioni per chi sgarra. Ma la norma consente spesso un aggiramento soft. Così, mentre le aziende serie stabilizzano i propri lavoratori co.co.co. quelle “furbe”, li licenziano e ne assumono altri, utilizzando i vecchi sgravi contributivi per i disoccupati del Sud, disposti dall’articolo 8, comma 9, della legge 407 del 1990.

Il risultato è che le aziende serie si “appesantiscono” di migliaia di nuovi lavoratori subordinati e dei loro costi in termini fiscali e contributivi, quelle meno serie si “liberano” dei co.co.co. ed assumono disoccupati con gli sgravi.

Dal 2008 in poi ad ogni “giro di boa” delle diverse commesse, le aziende serie non possono reggere la competizione di prezzo di quelle che hanno aggirato la norma. E le perdono. Una, due, tre “sconfitte” e la crisi è dietro l’angolo. Ovviamente il nuovo lavoro degli assunti con i contributi, al sud, è un lavoro “di carta”. Finiti i contributi e il vantaggio competitivo, molti chiudono, licenziano, scappano.

Sul campo di battaglia restano le aziende serie, che hanno perso le commesse perché i maggiori costi del lavoro non gli hanno consentito di fare prezzi convenienti, i lavoratori co.co.co. non stabilizzati dalle aziende che hanno aggirato la norma e i nuovi assunti, mandati a casa alla fine del periodo di durata degli incentivi e della commessa, perché alla successiva “competizione”, mantenendo quei dipendenti con i costi normali, viene meno la capacità di fare sconti alti battendo la concorrenza.

Ovviamente, quando le commesse ritornano sul mercato, i committenti usano come base d’asta i prezzi “drogati” fatti dai gestori che li avevano ribassati, “ribaltando” in favore del cliente lo sconto sui contributi ricevuti dallo Stato. Questo fa in modo che la crisi si avviti, perché per tornare competitive, le aziende che sono correttamente rimaste sul mercato, mantenendo i lavoratori, hanno un’unica soluzione: praticare prezzi fuori mercato che “ribaltano” sui lavoratori stessi. Più ore, meno permessi, meno formazione. Se non riduzione del personale, quantomeno stop alle assunzioni. E bilanci in rosso.

E’ la fine del sogno. Un settore che aveva conosciuto stagione di file per colloqui e nuove assunzioni e che aveva dato speranza a tanti giovani, rivela il suo volto nero. I tempi in cui si registravano incrementi di matrimoni e nascite nelle città sedi di Call Center è irrimediabilmente consegnato al passato.

 

(Fine prima puntata, continua…)

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