Publio al citofono

Suonano al citofono di prima mattina.

Dallo spioncino distinguo a malapena una figura umana, con un lenzuolone addosso. Una specie di dalai lama che sotto la pioggia scrosciante somiglia più al replicante di Blade Runner, una statua di bronzo sgocciolante.

Chiedo chi è e mi sento rispondere:

– Publio.-

– Publio? – faccio io, ancora assonnato- ma Publio chi?

– Ovidio – risponde  la strana presenza fuori la porta, con il tono di James Bond-, Publio Nasone Ovidio –

– Ma che razza di nome è? -, gli chiedo sforzandomi di metterlo a fuoco dallo spioncino

– Il mio, perché? Una volta era un nome rispettabile.-

– Ma una volta quando?, – domando, sempre incollato allo spioncino

– Nella prima vita, intendo, prima del ritorno.-

– Ma che ti sei fumato, amico?, faccio io, pronto a mandarlo a quel paese e tornarmene a letto

– Un sacco di roba, cives, ma sempre nell’altra vita – insiste lui

– cioè quando? – gli chiedo, continuando la paradossale conversazione, in fondo incuriosito dal dove voglia arrivare.

– nel Trenta, su per giù –

– Ma Trenta che? Guarda che siamo nel 2017, al ’30 ne mancano ancora una quindicina.

– Meno Trenta, intendevo, e non mille o duemila. Solo Trenta. Il meno Trenta di quando gli anni si contavano a ritroso e tutti ci chiedevamo cosa diamine sarebbe successo quando fossimo arrivati a Zero. Ma poi ci arrivammo e niente, ricominciammo a contare da uno.

Ok – penso – ci sono arrivato. E’ un sogno, sto ancora dormendo. Tranquillo, – mi dico – ora ci parlo, faccio lo sciolto, registro tutto e ci faccio un figurone con l’analista alla prossima seduta.

– Senti Publio, – esordisco come se la conversazione abbia un senso- se intendi che sei proprio quel Publio Ovidio Nasone lì, poeta latino nato a Sulmona e esiliato a Costanza, devo darti una brutta notizia. Siamo nel 2017. Tu sei morto, duemila anni fa, precisi precisi. Sono stato anche alla rievocazione per il bimillenario, hanno letto le tue poesie, ti hanno omaggiato e, per dirla tutta, pare ottengano pure un fondo ministeriale per celebrarti. Pensa un po’.

Sì – fa lui – lo so, sono morto numericamente prima che nascessi. E da allora me ne stavo beato, pura energia quantica a vagare in qualche angolo vuoto nel nulla cosmico, ma improvvisamente mi ripescano come alla lotteria e mi dicono, Svegliati Ovidio, ti rimandiamo a Roma a ritirare la riabilitazione.

– La Riabilita-che? –

Si, La riabilitazione dall’esilio. Non hai saputo? Vi siete accorti che non ero mai stato amnistiato, ancora vittima dell’editto di Augusto. Teoricamente, se fossi tornato, non avrei potuto mettere piede in patria. Manco è giusto, non pensi? In fondo non ho fatto nulla di male, giusto una storiella con la nipote dell’imperatore, Giulia Minore, la Rubacuori…

– mandai, –  faccio io, sempre più felice di come lo strano sogno si stia evolvendo e della faccia che farà il mio analista quando glielo racconterò.

– Certo- continua lui – tornato per rientrare nella gloria a Roma. Non che ci tenessi così tanto, ma così hanno deciso gli dei per me.-

– Gli dei? Vuoi dire che esistono davvero? Giove che tira fulmini, Giunone gelosa che si vendica, Diana che va a caccia, Cupido che scocca frecce…

– Boh, io per la verità non li ho mai visti. Ma qualcuno o qualcosa c’è e mi ha rispedito qui a rivendicare la mia figura mortale, per quanto a scoppio molto ritardato.

– Anche ammesso  sia così, – riprendo io, mantenendo il gioco – perché proprio io e a casa mia?

– E che ne so? – esordisce – Sei sulmonese, no? E vivi a Roma, giusto? Avranno estratto a caso dall’anagrafe, chiunque ci fosse capitato mi sarei aspettato reagisse così. Ci ero preparato, anch’io al tuo posto….

– Beh, si, vista così, ha un suo senso – questa me la debbo ricordare così com’è, mi ripeto, che in genere il mio analista dice di scrivermeli i sogni appena sveglio, altrimenti li dimentico.

– E quindi ora che si fa? che dovrei fare io? –

 

– Intanto se mi fai entrare, che piove a dirotto. Mi ospiti qualche giorno, giusto fino al ritiro del documento di riabilitazione, poi me ne vado. Cerco un lavoro. Magari scrivo, vendo libri. E poi, quando sarà il mio turno, torno finalmente di là nel nulla, dove stavo prima.-

– Oh povero Publio, – commento compassionevole – non sai quanto è diventata uno stress la vita, soprattutto per gli artisti…-

– Non mi dire niente, cives – mi confessa sconsolato –  Non sai che stress risorgere e ricatapultarsi qui. Ho un cerchio alla testa che levati. Ma almeno sto a Roma, ci sarà un cesare da omaggiare, non si dice ancora morto un cesare se ne fa sempre un altro?

– No, Publio caro, è da un po’ che non c’è nessun cesare. Cioè, c’è sempre qualcuno che comanda e tutti gli altri che obbediscono, ma vattelo a pescare chi sia. Votiamo democraticamente un parlamento ma poi cosa ne viene fuori è sempre un rebus, e soprattutto non si sa chi e dove sia davvero il Potere.

– Ah, come ai tempi della nostra repubblica – si incuriosisce lui- Siete tornati indietro, quindi. Ma se voti, vuol dire che sei patrizio?-

– Macchè, Publio, manco un poco. (Tranne il direttore), non esistono più i patrizi. Adesso c’è una medietas che ci accomuna tutti. Sotto i nuovi schiavi, precari o immigrati (che però non diamo in pasto alle belve, che invece preserviamo gelosamente), e sopra pochi straricchi nascosti in caste sconosciute ai più. Ma nell’apparenza tutti uguali, siamo in democrazia.

– Uh, che bello,- si eccita lui- Potere al popolo. E Roma? –

Comincia a salirmi un sentimento fra la tenerezza e la pietas, ma più pietas. Come glielo dico cosa è diventata la sua Roma.

– Roma – provo a rassicurarlo – è sempre la città eterna.-

Ma dovrei aggiungere, niente più gloria, né caput mundi. Eterna solo perché la solita fogna di intrighi e omaggi ai potenti. Chi ci riesce campa delle briciole di corte, chi non ci arriva galleggia nella cloaca massima, trascinato dalla corrente.

Che faccio? – mi chiedo- gli lascio l’illusione? Ma se è un sogno, se è il mio sogno e vale solo per la prossima seduta dall’analista, esercito il potere che l’inconscio mi offre, i miei cinque minuti di giro alla giostra, per quanto solo apparente. Che poi, del resto, che differenza c’è con la vita da sveglio, se sempre apparenza è.

Alla fine opto per dirgli la verità, o almeno per quella rappresentazione della realtà che mi risulta, che è così, se mi pare.

– Ovi’, caro mio, ascolta il tuo compatriota. E’ finita tutta quella roba che ricordi. Mettici una pietra sopra. Te la ritiro io questa tua agognata riabilitazione, così non sai nemmeno chi te la dovrebbe consegnare (che è meglio), ministro del mibac o sindaco che sia, seppure riuscissi a convincere il mondo che sei davvero tu e che sei risorto.

Tieniti cara la tua memoria, la poesia, la gloria e tutto il resto, compresa l’amarezza dell’esilio, che oggi pagheremmo per essere spediti fuori da questo pantano. Contatta Giove o chi per lui e inventagli una balla. Che all’ultimo momento si sono rimangiati la riabilitazione, che poi, conoscendoli, non è nemmeno così improbabile. Che Roma non ti riconoscerebbe, così come si è dimenticata di te per duemila anni. Che questo non è più tempo di poeti, artisti e pensatori, ma di mediocri, furfanti e immondizia. Tanta da riempirci tutto l’antico impero romano. Tornatene a obbedire alla conservazione dell’energia in qualche buco nero della galassia, dove il Tempo e lo Spazio non sono più nemmeno quella convenzione che ci tiene ancorati tutti alle nostre ultime certezze.

Solo una cosa, fa un salto a Sulmona. C’è una fontanella sotto un antico acquedotto disuso. Fatti una bevuta di uberimus undis, prima che si vendano pure quella.

p.s.: Diglielo a Giunone che ad approfittarsi di Dafne fu Giove, travestito da Artemide. Che Dafne, porella, non fu la mignottella che tutti additano, come oggi l’attrice col produttore.

 

Antonio Pizzola

 

 

 

 

 

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