E ti telefono a casa

Due decenni fa, il telefono cellulare è entrato a far parte delle nostre vite delicatamente e senza particolare clamore, come a loro tempo fecero il walkman e il Tamagotchi, ma con il passare degli anni ha finito per stravolgerle completamente.
Ha reso inutili diverse cose: le agende, le rubriche, la penna, la calcolatrice, l’orologio, la radio, la sveglia e il bisbigliare alle orecchie.
Tralasciando le opportunità e l’allegrezza forniteci da rete, chat, community, selfie e app, riflettiamo un attimo sull’obbligata reperibilità alla quale siamo tutti sottoposti da qualche anno. Non siamo mai soli veramente, mai lontani abbastanza, mai assenti del tutto.
Il telefono portatile non è un’opzione, ma un’imposizione; non un diritto, ma un dovere.
Tutti dobbiamo essere necessariamente rintracciabili in ogni istante della giornata, anche la nonnina novantenne. Soprattutto la nonnina novantenne che, se non risponde entro il terzo squillo, viene data per spacciata e la chiamata deviata al 118.
Non importa se la poverina fosse impegnata a impastare il ciambellone per la colazione e il rumore del frullatore coprisse la suoneria del telefono: non c’è scusa che tenga.
Il cellulare  deve seguirci ovunque: in bagno, in spiaggia, a letto e pure in chiesa, luogo perfetto per ricevere “la chiamata”.
La nostra vita non può avere pause dal lavoro, dagli affetti e dai divertimenti. Dobbiamo essere sempre raggiungibili: per l’ultima pratica, l’ennesimo consulto, ancora un “Ti voglio bene” o l’estremo saluto.
La sirena dell’autoambulanza suona lontana e noi, in quel momento, abbiamo bisogno di sapere se i nostri cari stanno tutti bene.
Per chi suona la campana?
Chiamiamo chi amiamo.
Qualche  anno fa Massimo Lopez, interpretando la parte di un condannato a morte in uno spot televisivo, affermava: “Una telefonata allunga la vita”; da circa un decennio direi che cento telefonate ci accorciano la vita: vita intesa come tempo da vivere lontano dalle onde elettromagnetiche.

Passeggiamo, guidiamo, facciamo la spesa e chissà cos’altro telefonando, magari utilizzando un auricolare che ci lasci libere le mani per poter gesticolare da bravi italiani. Ed eccoci là a urlare discretamente per strada i fatti  nostri al destinatario della chiamata e pure a tutti i passanti.
Si tratta di una comunicazione urgente? Quasi sicuramente no, ma di certo è impellente: non siamo più in grado di procrastinare, attendere e soprassedere. Dobbiamo immediatamente liberarci di ogni dubbio, rabbia, curiosità e sentimento. Abbiamo la telefonata facile.
Con il cellulare cerchiamo di mettere ordine nella nostra vita disorganizzata: avvisiamo  dei ritardi, disdiciamo all’ultimo momento, rimediamo a mancanze, chiediamo conferma di orari, liste della spesa e indirizzi.
Grazie al cellulare non abbiamo mai paura di perderci, a meno che non finisca la batteria e il panico si impossessi di noi, come ai tempi delle rubriche di carta, degli “Scrivimi quando arrivi”, delle cartoline e degli “Scusi, che ore sono?”.
I giovani sono stanchi di ascoltare i nostri racconti sulle cabine della SIP, dentro le quali si poteva telefonare, trovare un resto dimenticato, avere un po’ di privacy o trasformarsi in supereroi.

I giovani sono annoiati dai nostri ricordi riguardanti fili del telefono troppo corti per potersi appartare in una stanza, lucchetti per tentare di alleggerire  la bolletta,  la barriera genitoriale da oltrepassare per parlare con la voce amica e l’orrendo grigio topo-che-scappa dei telefoni tutti uguali e fissi dei nostri tempi. Dotati degli smartphone della mela morsa, che costano uno stipendio, contengono il mondo e si sgretolano alla prima caduta, i giovani non conoscono il prezzo di un’interurbana, perché qualcuno paga per loro la tariffa “1000 minuti verso tutti a soli dieci euro mensili”.
Non sanno niente dei gettoni telefonici che valevano duecento lire e puzzavano di ferro.
Controllano spunte, foto e status e si perdono la bellezza di un “forse”, di un “chissà”, di un telefono buttato giù per la vergogna di dire “ Ciao, sono io”.
I giovani non hanno mai sentito il rumore prodotto dal disco numerico che torna indietro: “trrrr”; non hanno mai composto il 16  per conoscere l’ora esatta,  non citofonano agli amici per sapere se sono in casa, perché la tariffa di dieci euro comprende anche mille sms.
Che ne sanno loro di come era appagante fissare il telefono -che forse si chiamava “fisso” per questo motivo- sperando che la promessa dimenticata venisse mantenuta?
Che ne sanno loro, sempre con il cellulare in mano -che forse si chiama così perché favorisce il cellonare- di come era bello rispondere al telefono di casa e non parlare con un call-center che tenta di vendere qualcosa?
Non ne sanno niente: sono nati con il telefono mobile nella culla, lo hanno sempre addosso e questa cosa a noi adulti in fondo piace, ci rincuora, ci fa stare tranquilli il sabato sera e ci fa dormire sereni quando sono lontani da casa: per questo paghiamo volentieri quella tariffa di dieci euro. Per questo tante volte ci facciamo bastare un messaggio sul display.
Tutti, al telefono, continuiamo incessantemente a chiederci l’un l’altro se siamo pronti:
-Pronto?
Perché sappiamo che non  saremo mai veramente pronti ad accogliere tutti questi cambiamenti, ma non abbiamo scelta e ci adattiamo: acquistiamo il telefonino e lo dotiamo di protezione gommosa, per poterlo lanciare contro il muro, senza romperlo, quando non ne possiamo più; quando posporre non basta; quando vorremmo staccare da tutto e da tutti. Lontani. In ferie. Col diritto di non esserci…almeno per un giorno, almeno per qualche ora.

gRaffa
Raffaella Di Girolamo

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