Trans quotidiano

Abitarci nello stesso quartiere significa vederli al naturale, come il tonno, il macellaio o la tabaccaia,  mentre fanno shopping o prendono un caffè, lontani dalla rutilante notte dei balocchi. E dei segreti.

Struccati e strabordanti nelle infradito brasil, non si preoccupano di nascondere le stimmati del silicone, le ingombranti masse strozzate dal reggiseno, i mozziconi di barba ostinata a qualsiasi bomba di progesterone, i buchi di cellulite sotto gli short comunque fuori sinc col resto del corpo.

Solo i più soddisfatti della metamorfosi restano impeccabili, come la giovane moglie del colonnello in pensione a Tortreteste – dicono i vecchietti del bar – che anche se va alla coop  è agghindata di tutto punto.

Ciabattano in giro soprattutto nelle ore della calura che poretti i seminterrati o gli ex garage condonati che abitano s’infuocano di tettoia di eternit e li sputano a sventagliarsi sotto l’ombra di un platano urbano.

Che poi, a una certa dicono a Roma, debbono uscire, a nugoli di soppiatto come scarafaggi trasformati in cenerentole giganti, con tacchi da capogiro in piedi di boxer e supermini che a una donna standard arriverebbero al ginocchio. Gridandosene di tutti i colori sudamericani, riempiono le ore di cena sotto lo sguardo inconfessabile dei mutandoni sui balconi, si salutano scomposte e traballanti per distribuirsi sole o a gruppetti fra i più svariati mezzi pubblici e privati. Verso le strade della dolce vita decaduta, ormai vetrine assortite di qualsiasi varietà e percentuale di variazione, sotto l’assalto delle file di finestrini abbassati, sei proprio bella, mi fai impazzire, quanto vuoi.

 

Ma di giorno non esistono, nemmeno se passano ancheggiando fra le due file di sedie abusive dei soggiornanti da bar che non lasciano intentato alcun argomento, dall’ultimo sbarco profugo alle tette della farmacista.

Con loro i commentatori entrano in pause all’unisono, come distratti da un cornicione pericolante, come colpiti da un fulmine di sospensione del giudizio, non sia mai sfuggisse un commento scambiato per propensione all’argomento, per dubbio che in talune circostanze ebbene si anche il più rinomato sbandieratore del rione possa indulgere nel tranello.

Non è come con i gay ormai parte del paesaggio, a loro modo comunque parte di una categoria che non mette a rischio il machismo d’origine controllata, non è come con le lesbiche che strappano giusto la battuta da risata crassa, di quelle che esplodono con un rutto di birra.

 

I trans – o le trans, come preferirebbero essere chiamati/e – sono un’anomalia, un errore del matrix, una falla nella rasserenante distribuzione dei generi, un lucignolo dispettoso alle proprie certezze, una password poco sicura al proprio database.

Una domanda da fuggire, mutanti anticipatori di un’indifferenziata debacle di genere che suscitano la più umana fra le curiosità, caparbiamente repressa chè è un attimo e ti ritrovi su un camion del gay pride a ballare la samba.

Perfino le signore se ne tengono distanti, nonostante rischino meno nell’immagine dei loro figli, fratelli e compagni, per il timore del tarlo che anche il proprio cippo, amò e ciuppaluppa possa anche solo una volta cascare nella trappola.

 

Eppure.

 

In Italia – dicono le statistiche – le trans sono 40.000, manco pochi. Di questi si stima se ne prostituiscano ¼ per un giro di affari di 20 mln mensili, che vuol dire a una media di cento euro, 2 milioni. 24 milioni di appuntamenti annui.

Seppure grossolanamente ipotizzassimo che di questi la metà, ma anche i ¾ siano i soliti utenti abituali a questo punto svenati di ogni avere, a fine anno comunque un decimo della popolazione si sarebbe lasciato irretire dal canto baritonale delle sirene dalla lunga coda. Se poi scartiamo dalla lista minori, donne (sebbene fra i clienti ce ne siano),  fuori età ipotizzabile, gay ( si dicono assolutamente refrattari alle trans, una categoria minore un po’ come gli etero più ortodossi considerano loro), il numero dei potenziali amatori si gonfia fino a diventare importante.

Raccontano le protagoniste la più importante fetta di clienti sono politici, prelati, (i monolocali attorno al Vaticano pullulano dei più giovani esemplari), manager, professionisti di fascia medio alta. Ma anche camionisti, se sorgesse il dubbio sia l’istruzione a far venire le voglie, il potere o il denaro.

 

Che però spesso non se la passino poi tanto bene non è ovviamente argomento che riscuota l’attenzione, nè di amatori né di indifferenti, né che vengano sfruttate – come raccontano – in cambio della promessa dell’operazione che tarda a giungere. E che – attenti qui – decreta la fine della prostituzione perché i clienti le preferiscono così, congelate nella loro metamorfosi, perenni mutanti un po’ con un po’ senza.

E qui l’identità da maschi veraci va sempre più, come le vongole con l’ajetto, a farsi friggere.

Che vorrei vederli, davvero, questi campioni di ipocrisia isterica se chiudessero le frontiere, se quei diecimila prestatori-trici d’opera in nero li fermassero alle dogane e i monolocali interrati tornassero sfitti ai connazionali. Se la sera la fila di macchine sulle Colombo di tutte le città italiane dovesse tornare a casa insoddisfatta. Li vorrei vedere come nella scena di caccia di Fantozzi con l’impiegato dal labbro leporino, cominciare a sfogarsela col primo connazionale maschio che la natura avesse dotato, eccedendo col progesterone, di un didietro un po’ fuori dai suoi canoni.

 

Antonio Pizzola

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