Morrone, la lenta gestazione della rinascita

Morrone di Pratola Peligna loc. Colle delle Vacche, anni 50

Placate almeno per qualche tempo le voci sul rimboschimento e lasciato alla montagna il tempo di fare il suo corso, ci avventuriamo nelle pinete completamente distrutte sul monte Morrone. Passato il fuoco e portata con sé la vegetazione, quello che rimane è tutto ciò che non è riuscito a bruciare: pietre, terra, i resti carbonizzati dei tronchi e subito vengono in mente le parole dello scrittore Ignazio Silone sull’Abruzzo “non sono montagne per turisti, ma per eremiti; non per vacche ma per capre e serpi; montagne aride deserte, di poca erba, di gente povera”. Ci riportano ad un tempo antico quando la vegetazione sulle montagne era fatta sacco dalla povera gente in cerca di legname, dai taglialegna che negli anni hanno polverizzato boschi interi e dai pastori che cercavano nuovi pascoli per le loro greggi. Il Morrone era una montagna spoglia, spelacchiata e gli anziani narrano ancora con un sottile filo di enfasi nella voce delle “ravare”, le frane di sabbia, terra e sassi che sistematicamente venivano giù dalla montagna con le piogge abbondanti.

briglia risalente all’epoca fascista, nel vallone di Occhio Bianco

È per questi motivi che si è reso necessario nel tempo intervenire meticolosamente per fermare il dissesto idrogeologico e la distruzione della flora e della biodiversità. Il primo rimboschimento risale addirittura al 1895, gli altri si sono susseguiti per tutto il Novecento, passando per i prigionieri austriaci del Campo 78 e per i disoccupati della Valle Peligna che dagli anni Venti alla fine degli anni Settanta venivano impiegati per la creazione di boschi artificiali e la costruzione di opere di ingegneria idraulica come le briglie, necessarie per rallentare la forza dell’acqua quando s’incanala nei valloni.

Con l’incendio la situazione del ruscellamento dell’acqua durante le piogge è diventata una questione importantissima, la cenere depositatasi sul terreno, impastata all’acqua crea uno strato impermeabile producendo un maggiore afflusso d’acqua nei canaloni con una maggiore velocità fatale per il suolo. Per terra di tanto in tanto incontriamo dei letti di cenere, fragili ma compatti, ci vorrà ancora del tempo prima che vengano smaltiti e fino ad allora è necessario che i valloni vengano monitorati costantemente.

I primi tre mesi dopo un incendio sono determinanti per salvare il suolo fertile. È vero che la cenere è un ottimo concime naturale per il terreno in quanto sostanza organica mineralizzata, ma è vero anche che non essendoci più sottobosco ed avendo l’acqua che scorre più velocemente per il suddetto effetto impermeabile creato dalla cenere, tutto lo strato superficiale viene spinto a valle inesorabilmente. Prima che uno strato fertile si ricrei passano dai quindici ai venti anni. A questo scopo sono molto utili i tronchi bruciati che ormai morti cadono a terra diventando veri e propri argini naturali all’erosione del terreno.

Attraversando le sagome degli alberi bruciati, la speranza prende piede quando ci si accorge che il terreno è già pieno di erbe spontanee, ci sono le knautie, le graminacee, le carici, il camedrio. È un proliferare delle specie più varie, ricostituiscono la parte andata bruciata dal fuoco con un secondo ciclo vegetativo, in attesa dell’inverno. Il vero custode di queste lande devastate sembra essere l’asparago (Asparagus acutifolius), spuntato ovunque ed ora ben visibile in mezzo a pietre e terra.

leccio (Quercus ilex)

La sorpresa più grande e inaspettata però arriva quando ci addentriamo in zona “Primi pini” poco sopra Bagnaturo, qui le fiamme hanno lasciato solo spettrali tronchi anneriti, ma è proprio in mezzo a questo cimitero di alberi che la forza della natura si esprime in tutta la sua potenza. Dai piedi degli alberi – quasi tutti latifoglie – i ricacci, già alti fino a venti centimetri, sembrano pieni di vita. Il terreno terrazzato per il rimboschimento ha tenuto ben coperto l’apparato radicale permettendogli di sopravvivere e ora spunta sparso quello che sarà il bosco futuro. C’è il leccio (Quercus ilex), l’orniello (Fraxinus ornus), il terebinto (Pistacia terebinthus), la roverella (Quercus pubescens), il rovo (Rubus sp.), l’osiris (Osirys alba), la ginestra (Spartium junceum).

ailanto (Ailanthus altissima)

C’è anche l’ailanto (Ailanthus altissima) – volgarmente “lu zelandre” o “la noce pazza” -, una pianta esotica infestante che si diffonderà inizialmente a spese delle specie locali come spiega l’ecologo Kevin Cianfaglione: “Dopo gli incendi, i tagli e le pulizie, l’ailanto si sviluppa molto e prende piede dove non c’era, ma non si può fare nulla per arginarlo, se non attendere il dovuto. Infatti tagli, pulizie ed incendi possono avere l’effetto deleterio di favorire le specie infestanti. Bisognerà avere pazienza, adesso esploderà poi bisognerà aspettare che gli alberi più autoctoni lo rimpiazzino. Più si interviene, più si manomette la montagna, più questa sarà fragile e l’ailanto si espanderà”.

La natura però non bada all’estetica, errore che spesso compie l’uomo. Il processo di rinaturalizzazione del Morrone sarà lungo e nella prima fase sarà in gran parte composto da cespugli come spiega ancora Cianfaglione: “La montagna sarà condannata ad essere un grosso e diffuso cespuglieto, da cui col tempo se nessuno interverrà, cominceranno a selezionarsi gli alberi più forti che cominceranno a strutturare il bosco futuro. Quindi è bene prepararsi al fatto che gli arbusti non potranno che essere il futuro della montagna e che dovranno essere rispettati perché da essi scaturirà la nuova flora del Morrone”.

Il sole al crepuscolo rende lo scenario drammaticamente unico, isolato dal contesto. Pare una realtà parallela, forse quella di un film che parla di un mondo post-atomico. Mentre riscendiamo il cuore ci chiede un attimo di riposo per contemplare questo presente dato alle fiamme. I resti del bosco sono un monumento vivente di quello che è stato, lo sguardo si perde fra la fitta rete di ramaglie ormai spoglie mentre in Valle le prime luci iniziano ad accendersi come piccole lucciole stanche che hanno smarrito la strada. È tempo di andare, nell’attesa di ritrovarsi ancora una volta.

Savino Monterisi

rovo (Rubus sp.)

ginestra (Spartium junceum)

asparagi (Asparagus acutifolius)

terebinto (Pistacia terebinthus)

2 Commenti su "Morrone, la lenta gestazione della rinascita"

  1. ailanto, rovi e resinose …la rinascita va aiutata con bonifica, sistemazioni, strade e nuove varietà.. Ci sono zone molte fertili…

  2. Piu genrico non si può? Cosa si intende per bonifica? Bonifica da cosa? COsa vuol dire che ci sono zone fertili? Ogni intervento umano è superfluo, uno spreco inutile e facilemnte rischia di creare piu problemi che benefici? E proprio sulle zone piu fertili, dove le specie esotiche ed invasive possono creare piu problemi, se si mette mano. E’ con la licenza poetica di essere generici per non dire nulla che chi deve speculare cerca di giustificare la sua opera inutile e dannosa. Quindi attenzione a quel che si dice e come lo si dice se non volgiamo facilitare chi ha tutti gli interessi ad incendiare:

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