Bubu settete

Il bimillenario è finito (è finito?), gli amici se ne vanno (sono arrivati?) e hanno fatto appena in tempo a vedere i benefici apportati alla statua del nostro più illustre concittadino, dal trattamento di bellezza offerto dal sindaco della città canadese Vaughan.
Il vate pensoso è stato per due mesi dietro un separè di impalcature a farsi lucidare la tunica e lisciare il piedistallo. Non c’era neanche un piccolo pertugio dal quale spiare i lavori in corso, per poter dare un giudizio, offrire un parere o elargire un consiglio ai restauratori.
Per tutto questo tempo, Ovidio ha dovuto fare a meno delle amate facce dei turisti, che da sempre lo ammirano col naso all’insù, la bocca piena di confetti e il selfie di rito.
Due mesi nascosto dalla vista dei suoi concittadini, che in realtà a lui badano ben poco, ma ai quali si è comunque affezionato e abituato: i bambini che giocano sul basamento, le polemiche, gli amori, i discorsi da bar dello sport e quelli da tribuna politica di tutti i giorni. Di tutti gli anni. Di tutti i tempi.
Per questo, macerato dalla noia di quel lungo periodo passato lontano da tutto e da tutti, è voluto tornare tra noi con una burla.
Il 26 ottobre stavamo tutti là, seriosi e composti, con lo sbadiglio elegante delle grandi occasioni e il telefono in mano per scattare una foto all’Ovidio Nasone restaurato, come prova che “Io c’ero”.
Stavamo tutti là, pochi seduti, tutti gli altri in piedi, con la brama di vedere e giudicare, da esperti d’arte (e non solo) quali siamo, se il lavoro fosse stato eseguito a regola d’arte.
Stavamo tutti là.
E invece niente.
-Il drappo rosso gnornò gnornò.

Più le mani disperate tiravano, tendevano e scuotevano la dispettosa stoffa ancorata, più noi ce le sentivamo addosso, a farci il solletico nei punti più sensibili.
Più le facce fiere e baldanzose degli organizzatori si facevano incerte e preoccupate e più ci diventavano simpatiche.
Più la musica tronfia veniva riavviata per riempire l’attesa, più ci sembrava ballabile.
Quando abbiamo smesso di tentare di nasconderla dietro il colletto del giaccone, fra la tosse, sotto i baffi o dentro la mano, una fragorosa risata si è diffusa per tutta la piazza, finalmente affollata, finalmente festosa.
Con un metodo spartano, ma efficace, dopo otto minuti, che abbiamo percepito come secoli, il drappo è caduto e Ovidio è stato svelato.
In quel momento un applauso liberatorio ci ha alleggeriti dall’apprensione che noi peligni proviamo, ogniqualvolta assistiamo alla caduta di un manto, nero o rosso che sia.
Non sapremo mai, con certezza, se si sia trattato di un “bello” o di un “buffo” della diretta (con il Canada). Io lo definirei l’imprevisto che ha reso unica la forma. L’intoppo che ha fatto indimenticabile il giorno.
Un giorno che avrebbe dovuto essere come tutti gli altri, in cui l’amministrazione comunale ci chiama ad assistere ad un qualcosa di importante, con i discorsoni, gli applausi finali e poi ognuno a casa sua.
Invece si è trasformato in una serata simpatica e memorabile, che ha visto il popolo della “patria gelidus uberrimus undis”, unito a ridere e poi a gioire per un lieto fine prevedibilissimo, ma dovuto e comunque emozionante.
Perché a volte basta davvero poco a rendere festosi i cuori.
Ce lo hanno insegnato i nostri figli, quando si spanciavano per un semplice “Bubu settete”, che li confondeva prima e tranquillizzava poi, una volta che il viso amato ricompariva a rassicurare che ogni cosa fosse al suo posto e che tutto andasse bene.

gRaffa
Raffaella Di Girolamo

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