Filava la lana

Filava la lana

Un batuffolo di lana bianco avorio se ne sta sul pavimento di casa di mia nonna Elena – Lenuccia – a Bagnaturo. È arruffato e soffice, impolverato perché in una stanza poco vissuta. È scivolato via da un cuscino sformato, adagiato su un letto dove non dorme più nessuno. Se mi avvicino mi accorgo che non è un fiocco qualunque: sospeso nel tempo, racconta di una pecora e un gregge di ritorno dalla Puglia; di un pastore e la tosatura prima dell’alpeggio; di un vello cernito, lavato e riposto in un cuscino – lo stesso che ora se ne sta dimenticato sul letto di casa.

Per secoli il prodotto più prezioso dell’economia locale, la lana appenninica, con l’industrializzazione è diventata desueta. L’introduzione di fibre sintetiche, la necessità di standardizzare i filati e la minore resa delle lane italiane rispetto agli allevamenti intensivi australiani e argentini hanno quasi azzerato la produzione nazionale. Oggi è un rifiuto speciale e negli inceneritori se ne bruciano circa 9.000 tonnellate l’anno, con un costo rilevante per gli allevatori. A fronte di questa dinamica consolidata, la lana appenninica può tornare ad avere un utilizzo significativo? Per capirlo, siamo andati ad Anversa degli Abruzzi.

A metà pomeriggio, la luce ocra filtra nell’incastro di case del paese, Andrea sedotto pare avere una saudade da Tuscany. Da Pizzo Marcello, un vento vivace s’incunea nelle gole del Sagittario e si disperde nei vicoli dell’abitato: Francesca constata amareggiata la fine dell’estate. Tutt’attorno, la vista è un cuneo che degrada sul fiume Sagittario e sulla valle Peligna: falesie calcaree, calanchi rugosi, animali nascosti tra le rocce in attesa dell’imbrunire. Il monte Genzana è una gobba boscosa senza collo né testa. In lontananza il bramito di un cervo, l’autostrada, i suv con le hit dell’estate.

Ad Anversa la pecora è di casa grazie all’antiveggenza di Emanuela Cozzi e Nunzio Marcelli. Dagli anni Ottanta, prima con la cooperativa Asca e poi il bioagriturismo La porta dei parchi e il progetto Adotta una pecora, han – no scritto una pagina fondamentale della pastorizia abruzzese. Recuperando il concetto tradizionale di allevamento – estensivo, biologico, con razze rustiche locali – hanno riportato la pastorizia alla sua natura multifunzionale: valorizzazione delle risorse ambientali locali, conservazione dei saperi tradizionali, tutela del paesaggio e funzioni didattiche.

Dall’incontro con Viola, figlia di Marcelli e Cozzi, nel 2020 è arrivata in paese Benedetta Morucci. Occhi di ghiaccio, septum e un nastrino a tenerle i capelli ramati, Benedetta ha tatuaggi sparsi sul corpo tra i quali spicca la parola amore al centro del petto. Metà toscana, metà friulana, è cresciuta in Veneto dove è tornata dopo gli studi universitari tra Firenze e Milano. Ha lavorato nell’alta moda come industrial designer progettando diversi tipi di prodotti e processi di lavorazione. Ne è uscita dieci anni dopo: “Ero disgustata dal greenwashing delle aziende – anche le più blasonate – ed ero stanca di un mondo dove a decidere sono quasi sempre maschi bianchi sessantenni che pretendono di spiegarti cos’è la femminilità”.

Oggi, il ricchissimo mondo dell’abbigliamento – soprattutto nella versione più spinta del fast fashion – è un modello usa e getta in cui i beni vengono costantemente consumati e riacquistati per rendere impossibile la saturazione dei mercati e continuare a produrre. Ipertrofico, malato di profitto e con un impatto ambientale devastante: è un settore occupazionale dai ritmi estenuanti in cui lo sfruttamento è subìto tanto da chi progetta quanto da chi realizza i prodotti. Un meccanismo predatorio e altamente estrattivo nel quale la lana italiana è diventata velocemente – quanto incredibilmente – uno scarto. Un cortocircuito nel quale ha voluto cimentarsi Benedetta che per due anni ha studiato come reimpiegare la lana nella filiera produttiva nazionale, lavorando ad una soluzione sistemica e sostenibile.

“Quando ho iniziato, la filiera compiuta non esisteva e ho dovuto rimetterla insieme pezzo per pezzo. Ho trovato gli stabilimenti con cui lavorare: l’impianto per il lavaggio industriale e la tintura nel biellese, il lanificio per la filatura nel trevigiano, lo stabilimento per la maglieria nel pratese e quello per la calzetteria nel bresciano. Il mio lavoro inizia già nel momento della tosatura, con la cernita, quando scelgo i velli più adatti e scarto le parti non lavorabili. Poi la lana viene mandata in lavanderia ed inizia il suo ciclo di utilizzo”.

In principio la sua idea sembrava quella di una persona un po’ svitata e pochi ci credevano veramente, ma quando, dopo il primo ciclo di lavorazione, è tornata dagli allevatori con il primo paio di calzini filati, tutti si sono dovuti ricredere.

La tosatura avviene nel rispetto dell’animale, la materia prima è rigorosamente biologica e proviene da allevamenti da pascolo: non presenta residui chimici derivanti dalle lavorazioni e non subisce l’aggiunta di fibre sintetiche. Una produzione etica e sostenibile che, se sostenuta con adeguati investimenti in formazione e attrezzature, potrebbe dare vita ad una filiera locale. Nel 2020, Benedetta ha creato la sua azienda e brand Lamantera in seguito alla vincita del bando RestartApp di fondazione Garrone dal quale ha ricevuto un finanziamento che le ha permesso di avviare l’attività. “Oggi produco semilavorati e berretti, fasce per capelli e calzettoni. In autunno uscirà la mia prima collezione in tre linee differenti dedicate al territorio: il paese, la transumanza, i briganti. Avranno diverse tinte e ci saranno anche maglioni con cappuccio, cardigan, sciarpe, stole e cappe. In futuro mi sto adoperando per produrre delle mantere”.

Mia nonna ha indossato la mantera, il grembiule da cucina, ogni giorno della sua vita. Segno inconfondibile del suo lavoro di cura. Se la toglieva soltanto nei giorni di festa. E così è stato per tutte le sue amiche e dirimpettaie: zia Maria, Ernesta, Marietta, Modestina. Prima di cena si radunavano sul gradino davanti casa con le loro mantere a fabbricare quel piccolo mondo antico. Racconti ancestrali e storie di vite tenevano insieme la comunità. Pettegolezzi e mantere hanno fatto il paese.

“La vita ad Anversa mi piace, la gente è accogliente. La mia è stata una scelta ponderata, sono venuta a trovare Viola per anni fin dal 2018, ma è stato comunque un colpo di fulmine. Non soffro l’isolamento, c’è gente che viene da tutto il mondo e non mi manca nulla. Certo, vivere in un paese non vuol dire andarci in vacanza, richiede una precisa consapevolezza e rispetto del luogo. Io fondamentalmente sono venuta perché avevo bisogno della bellezza. Ero stufa della vista su villette a schiera e capannoni. Se ci pensi bene, la vita è un atto di amore e io provo a metterlo in tutto quello che faccio, me lo sono persino tatuato in petto per ricordarmelo ogni giorno. Quando mi sono stancata della mia vita precedente, mi sono domandata: dov’è che mi sono sentita in pace? La risposta è stata scontata. C’è voluto poco a rendersi con-to che era tutto più semplice di quanto credevo”.

Sostenere la pastorizia estensiva, quella che vuole gli animali al pascolo, vuol dire favorire una nuova cultura agro-ecologica fondamentale per tutelare il territorio montano, monitorare e controllare il rischio idraulico e le aree boschive, conservare il patrimonio storico e culturale, favorire la biodiversità e la qualità delle reti ecologiche: produrre paesaggio. Questo tipo di pastorizia ha valore intrinseco perché impreziosisce i prodotti di derivazione animale e mantiene integro il rapporto di coevoluzione che ha determinato l’equilibrio fra abitanti e territorio per secoli.

Per noi è tempo di ripartire. Melanconico, Andrea ripone la Leica nell’astuccio – forse non ha voglia di andare – Francesca dal suo cede all’autunno e s’infila la giacca. Ci congediamo davanti al portale gotico della chiesa di San Marcello. I battenti pregiati sono chiusi, i fedeli entrano dalla porta laterale e per strada risuonano i canti della messa. La storia della lana locale è la metafora dell’Appennino: un’eccedenza della modernità. Ad Anversa parla linguaggio inedito. Racconta di un margine che preme per tornare protagonista e reclama nuova centralità – serve cercare un nuovo senso, ripensare i saperi ambientali in una nuova funzione ecologica. In definitiva, la lana appenninica che torna al suo ciclo di utilizzo vuol dire nuove opportunità per i territori montani. Un’occasione che attende soltanto di essere colta.

Anversa è una bomboniera con le sue contraddizioni in cui non sembra difficile abitare. Case appena ristrutturate attendono turisti, hanno grosse travi di legno sui soffitti e tende ricamate alle finestre. Affianco, cantine ammuffite hanno la porta sfondata – gli italo-americani quest’anno non torneranno. Bicchieri e tazze da latte restano anestetizzate nelle credenze. Zaini ordinati di escursionisti ripartono dopo la camminata alle gole, mentre i trolley dei ragazzi del paese sono già in viaggio per le città di studio e lavoro. L’estate è alla fine e la lana torna merce preziosa in questo gomitolo di Abruzzo.

A Bagnaturo, il batuffolo arruffato abbandonato sul pavimento, dopo essere stato lavorato insieme alla lana di due cuscini, è finito in un materasso – il più comodo che io abbia mai avuto.

Terra e mestieri è a cura di Andrea Calvano e Savino Monterisi

2 Commenti su "Filava la lana"

  1. Semplicemente meraviglioso!!!
    Il paese, la storia, l’attività di questa ragazza e (perché no 😊) anche il vostro articolo.

  2. Mi associo al commento di Milena.
    Meravigliosi i protagonisti,la storia,la scrittura..
    Storie così ti riconciliano con la vita.

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