La crisi della rappresentanza, al voto senza decidere

 

Un rapido sguardo alle liste dei candidati alle prossime elezioni politiche e scatta subito la domanda in mente: “E mo’, chi voto?”. Mai come questa volta nella storia della Seconda Repubblica “grande è la confusione sotto il cielo”. Responsabili sono: un po’ la fine della politica così come l’abbiamo conosciuta – quella di stampo novecentesco protrattasi a fatica fino alla soglia degli anni Venti del nuovo millennio – un po’ la legge elettorale.

Fine della politica novecentesca

La politica nella Prima Repubblica si fondava sui grandi organismi di massa: partiti, sindacati, associazioni e persino i canali televisivi della tv pubblica. I cittadini vivevano in comunità di simili, dove in base all’ideologia ognuno aveva i propri punti di riferimento, per capirci: i comunisti avevano il Partito Comunista Italiano, la mamma Cgil, l’Arci e le Case del popolo, i democristiani avevano la Democrazia Cristiana, la Cisl, le parrocchie e le chiese, i socialisti avevano il Partito Socialista Italiano, la Uil e così via. Tutte queste “istituzioni” servivano a dare un’idea del mondo che s’inseriva poi nel grande contrasto fra la il blocco filo statunitense e capitalista e quello filosovietico e socialista.

Dagli anni Ottanta ad oggi sono avvenuti alcuni cambiamenti decisivi: una svolta economica in senso liberista a scapito della socialdemocrazia, rimodella l’intera economia occidentale dando vita a quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”; il crollo del blocco sovietico ridisegna il contesto ideologico nel quale si muove il mondo; la rivoluzione digitale chiamata anche rivoluzione tecnologica delle Ict – tecnologie dell’informazione e della comunicazione – riplasma completamente la società di massa novecentesca – solida e comunitaria – nella società del nuovo millennio – fluida e atomizzata – che perdendo i punti cardinali che la ordinava fino a qualche anno prima si ritrova confusa, disorientata e spaurita.

Bisognerebbe dunque smettere di guardare la società con le stesse lenti con cui lo hanno guardato i nostri nonni perché sono ormai appannate da strati e strati di polvere e non riescono più a restituire una visione reale di ciò che ci circonda. Quali debbano essere gli elementi fondanti di questo nuovo millennio non è ancora chiaro, ma sconvolgimenti sociali come quelli che stiamo vivendo – paragonabili all’epocale passaggio dalla società agricola e medievale a quella industriale –hanno bisogno di decenni per sedimentarsi e dare luogo a nuove forme sociali definite. Se questo discorso è condiviso, dovrebbe essere applicato anche alla politica negli ultimi anni sempre più denigrata. I politici sono visti – con un leggero velo di malinconia – così distanti e diversi da quella classe politica “romantica” che guidò il Paese nell’immediato dopoguerra (su questa idealizzazione molto osannata dagli over 50, ci sono dubbi che fanno venire in mente le parole dei Gazebo Penguinse poi è tutto un ricordar le cose meglio di com’erano davvero / di quando avevamo qualche anno di meno”).

I partiti e i politici dunque non sono più quelli di una volta a buon vedere, ma è la naturale conseguenza di un mondo cambiato. Non esistono più le masse novecentesche che li supportavano, gli operai ad esempio, da sempre bacino elettorale del Partito Comunista, oggi chi sono e soprattutto chi votano? In un mondo del lavoro iperframmentato non esiste più la coscienza di classe né l’operaio massa e non esiste nemmeno più il partito che lo rappresentava, ma nel nostro steccato mentale continua a sopravvivere ad esempio l’idea che quella che chiamiamo “sinistra” faccia gli interessi dei lavoratori eppure il governo Renzi ha abolito l’articolo 18 e approvato il Jobs Act. Scampoli di Novecento.

Dovremmo invece chiedere ai partiti e quindi ai politici di adeguarsi ai tempi che corrono, essere maggiormente plurali, aperti, permeabili, scalabili, democratici, caratteristiche imprescindibili in un mondo digitale, iperconnesso e globalizzato. Tutto ciò ovviamente non avviene spontaneamente perché i politici rischierebbero di perdere il loro status quo, faticosamente raggiunto e conservato con le unghie e con i denti. Così veniamo al secondo punto che rende questa competizione elettorale così particolare.

La legge elettorale

Senza entrare troppo nel merito della legge elettorale – abbiamo impiegato giorni per capirla nella sua complessità – possiamo dire che è stata fatta fondamentalmente da due partiti – Partito Democratico e Forza Italia – con l’unico intento di ottenere un risultato che potesse essere di sostanziale pareggio – per poi aprire una stagione di larghe intese o di grande coalizione, chiamatela come preferite – nel tentativo di tenere ai margini populisti e piantagrane: Movimento 5 Stelle, Lega Nord e gli ex Pd (oggi Liberi e Uguali).

Non c’è la possibilità di esprimere preferenze – come nel Porcellum si votano liste bloccate -, non c’è il premio di maggioranza, c’è invece il 66% di parlamentari eletti con metodo proporzionale – si ottiene un numero di parlamentari proporzionali ai voti ricevuti – e il restante 33% con metodo uninominale – l’Italia è divisa in collegi dove le coalizioni candidano un solo esponente e viene eletto quello che ottiene più voti nel collegio – ma non c’è possibilità di fare voto disgiunto fra proporzionale e maggioritario.

Piccoli rimandi tecnici per dire che i politici in maniera molto scaltra hanno confezionato una legge elettorale sapendo che sarebbero stato candidati quasi tutti politici di professione direttamente scelti dalle segreterie di partito, ovvero uomini e donne di assoluta fiducia che hanno giurato fedeltà non solo al partito ma soprattutto al suo leader e per questo si son tenuti ben lontani dal reintrodurre le preferenze.
Ma perché c’è bisogno di così tanta fedeltà?
Perché il secondo dopo che saranno definitivi i risultati – salvo grosse sorprese riservate dalle urne, che non è assolutamente il caso di escludere vista l’incertezza dominante – emergerà una generale incapacità di ognuno dei tre blocchi di governare con le proprie sole forze, dovendo a quel punto necessariamente aprire agli altri partiti lo spiraglio di una coalizione ampia.

È in questa fase che sarà necessaria l’estrema devozione verso il leader perché ai politici che fino al giorno prima si erano insultati vicendevolmente verrà chiesto di concorrere insieme per il bene della nazione e a quel punto anche le facce di bronzo più prestanti verranno sottoposte ad una pressione non indifferente. I timonieri dovranno avere il pieno controllo dei gruppi parlamentari che dovranno transitare lungo la direzione tracciata dal capo senza esitazione. Ci si ritroverà senza troppa difficoltà e senza neanche accorgersene, con i leader “responsabili” che si stringono le mani sorridenti in qualche sala del Quirinale mentre viene presentata la squadra di governo.

Dal generale al particolare, tutti i fedelissimi abruzzesi candidati

Ma proviamo a dare in quest’ottica uno sguardo approfondito alle liste presentate in Abruzzo. Iniziamo dal centrosinistra dove nelle tre posizioni sicure – capolista Senato e i due capolista alla Camera – troviamo Luciano D’Alfonso, Camillo D’Alessandro e Stefania Pezzopane. Il governatore ha ottimi rapporti con il cerchio magico renziano, incontra Maria Elena Boschi a giorni alterni e gode della piena fiducia del segretario Renzi, visto che l’Abruzzo è stato uno dei pochissimi casi dove le liste non sono state gestite da Roma, ma sono state assemblate proprio da D’Alfonso. Questi ha inserito nella squadra suoi uomini di fiducia, così ha strappato per il rotto della cuffia, la candidatura del suo delfino politico D’Alessandro. Per la Pezzopane la questione è diversa, in quanto si è votata completamente al renzismo, conquistando col lavoro parlamentare la fiducia dei vertici.

Nel centrodestra si è operato nella medesima maniera con Berlusconi trincerato ad Arcore insieme ai suoi collaboratori che hanno cercato di incasellare le pedine nello scacchiere. Così leggendo i nomi dei capolista alla Camera troviamo i fedelissimi Gianfranco Rotondi e Paola Pelino al suo quarto mandato parlamentare, mentre al Senato il posto da capolista è stato riservato al coordinatore regionale del partito Nazario Pagano, che in questi anni si è guadagnato la fiducia del Cavaliere. E poi i collegi uninominali del Senato dove figurano il paracadutato Gaetano Quagliariello, ormai abituato a trascorrere un mese ogni cinque anni in Abruzzo per poi dimenticarselo e Antonella Di Nino, non una parlamentare uscente ma sicuramente una forzista della prima ora.

Nei Cinque Stelle la centralità delle decisioni è stata mitigata dalle “parlamentarie” anche se poi l’esito generale è stato abbastanza normalizzato. Sicuramente entrano volti nuovi nelle posizioni “importanti” delle liste come la sulmonese Gabriella Di Girolamo, ma parliamo di tutt’altro che cittadini qualunque. La Di Girolamo è un’attivista della prima ora, da sempre a fianco delle battaglia del Movimento 5 Stelle ed è animatrice del Meetup sulmonese, una rappresentante su cui il movimento potrà contare ad occhi chiusi. Poi ci sono anche i parlamentari uscenti: Castaldi e Vacca, mentre per quelli esclusi dalle parlamentarie come Coletti e Del Grosso, si è aperto il paracadute dell’uninominale. Ai 5 Stelle va riconosciuto il merito di averci almeno provato a far entrare un pezzo di “società civile” nelle liste, come all’uninominale del Senato dove candidano l’ex direttore del Centro Primo Di Nicola.

In Liberi e Uguali è stato lasciato poco spazio ai rappresentanti locali, se non al Senato dove però le possibilità di eleggere sono risicate, per favorire i parlamentari uscenti – di sicura fiducia – così nelle due posizioni dove il partito se ottenesse un buon risultato potrebbe eleggere, quelle dei due capolista alla Camera, sono stati piazzati da Roma: la calabrese Celeste Costantino – quota Sinistra Italiana – e il molisano Danilo Leva – quota Articolo1/Mdp – nella piena ottica della spartizione dei seggi fra le forze che compongono LeU.

Tirando le somme

Non bisogna rimanere delusi dunque delle liste perché queste sono il risultato del duro e puro calcolo politico, bisognerebbe invece mollare gli ormeggi del Novecento e provare ad immaginare una politica diversa da quella che hanno vissuto i nostri genitori e i nostri nonni. Oggi il mondo è cambiato e non sarà nemmeno una classe politica migliore di questa a salvarci dallo sfacelo. Lo strapotere della finanza e dei creditori internazionali, impone rigidi paletti economici ai quali la politica fa fatica a sottostare se non imponendo sacrifici sui ceti medio e basso. È solo riappropriandosi dello spazio pubblico e della politica in senso ampio, solo partecipando, informandosi, interessandosi, mostrandosi attenti e rispettosi della “Res pubblica” – la cosa pubblica – che possiamo invertire la rotta.

Il meccanismo della delega ha mostrato tutti i suoi limiti e con esso la democrazia rappresentativa svuotata di ogni tipo di cittadinanza attiva e partecipativa. Non possiamo lamentarci di come i partiti selezionano la classe politica se non siamo noi i primi ad occupare lo spazio politico, se non siamo noi i primi ad essere politici nelle nostre scelte del quotidiano, se non siamo noi i primi ad occuparci dei problemi che ci circondano. E di nuovo mi vengono in mente dei versi, quelli che ho visto scritti su un muro di Bologna e non so nemmeno a chi appartengano: “Occupati delle cose / o le cose prima o poi / si occuperanno di te”.

Savino Monterisi

3 Commenti su "La crisi della rappresentanza, al voto senza decidere"

  1. Veramente un articolo bello. A corredo, mi sento di fare una modestissima articolazione , uno snodo che non intacca l’apprezzamento.
    La globalizzazione forse –per questioni di spazio – nel testo –mi sembra- viene tendenzialmente assunta come fenomeno naturale, ineludibile , un destino da accettare comunque, una “novità” a cui non si può rinunciare.
    Rotto il rapporto virtuoso tra economia e politica anche per la subordinazione di molti politici , la globalizzazione (ne riporto alcuni caratteri) con La contrazione dei suoi tempi, con l’espansione dei suoi spazi – grazie alla tecnica -; con l’atomizzazione dell’individuo inteso come impresa di se stesso , forse perchè deve restare soggetto isolato, innocuo e diviso; con la deviazione dall’ economia reale a quella della finanza e del debito , al servizio dello ” spirito del tempo “ , (la Globalizzazione) avrebbe dovuto produrre una sviluppo economico basato sull’assunto che i benefici vengono poi elargiti a vantaggio di tutti , a scalare , per l’ effetto della basilare teoria dominante del “trickle-down.
    Il risultato –dai dati- invece è stato precarietà e crescenti progressive diseguaglianze. Deve essere questo il nostro destino? Restano i miei complimenti.

    • Savino Monterisi | 31 Gennaio 2018 at 12:08 | Rispondi

      Per questioni di spazio – stiamo pur sempre parlando di globalizzazione su un quotidiano locale – sono dovuto andare con l’accetta. Non parlo di globalizzazione in termini né positivi né negativi, per quanto abbia la mia idea critica sul mondo globalizzato però non era questo il punto e ho cercato di mantenermi sull’ogettivo. Nell’articolo non parlo di globalizzazione come fenomeno irreversibile ma di fenomeno del presente, iniziato negli anni Ottanta. La ringrazio per l’appunto che ha fatto con molta attenzione e che mi da modo di parlarne in maniera un più approfondita qui, ribadisco che ho cercato di parlarne semplicemente come un “contesto dato” senza entrare nel merito e senza considerarlo statico e ineludibile.

  2. ma non ci sono anche altre sigle o partiti che si presentano in abruzzo, oppure ache Monterisi si adatta alla semplificazione. Penso che sarà presennte anche Potere al popolo. non si fa così ho menzioni tutti o nessuno.

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