L’Ultimo Natale

Il giorno dell’attentato Maryam entrava nell’ultimo mese, le acque si sarebbero rotte da un giorno all’altro. 

Yosefa era in angoscia, quell’attentato avrebbe portato altro sangue, distruzione e morte e per loro due un destino senza scampo. Si convinse che l’unica soluzione fosse la fuga, finché fosse stato ancora possibile. Avrebbe serrato in gran fretta il portone della falegnameria sulla piazza del mercato e portato via Maryam, via da quella striscia maledetta, dove non c’era futuro né per sé, né per lei, né per il piccolo Yeshua: la prima luce che avrebbe visto, aveva giurato alla sua giovane sposa, non sarebbe mai stata di un ordigno. 

Ma Yosefa si portava addosso una condanna, lo stesso nome di alcuni dei capi più violenti del terrorismo. Dopo l’orrendo attentato dei giorni precedenti non si sarebbero limitati a rivoltargli la bottega, come accaduto più volte nonostante sapessero che da tempo non avesse più rapporti con la sua famiglia di origine. Yosefa era un uomo onesto e pacifico, contrario alla violenza in ogni sua forma, esule e straniero ormai dalla sua terra e dalla sua casa.

Ma nessuno gli avrebbe creduto, né gli Scribi che lo avrebbero torturato a morte come complice del terrorismo né tantomeno i suoi, per i quali ormai lui era solo un traditore.

Non era più un ragazzo, tanti anni lo dividevano da Maryam e più il tempo passava più sentiva crescere la responsabilità della cura che se ne doveva assumere. La conosceva da sempre, l’aveva vista crescere e appena raggiunta l’età dell’adolescenza, come era costume fra la sua gente, l’aveva sposata. Per debito, forse, per amore o solo come riscatto alla sua condizione, il suo piccolo contributo di speranza alla causa. Anche se il bimbo che Maryam portava in grembo non era suo, egli sarebbe stato – aveva promesso alla sua sposa – un buon padre, che si sarebbe preso cura di entrambi senza pretendere spiegazioni. Quella nuova vita incarnava le speranze di una terra d’inferno, tormentata nei secoli come per un peccato atavico impossibile da mondare.

Partirono subito, nei giorni di tensioni e di ansia per l’imminente risposta dell’esercito all’attentato. I varchi di uscita erano strapieni, le liste interminabili, le attese infinite, non potevano rischiare il parto lungo il cammino o peggio in un ospedale, in piedi chissà ancora per quanto tempo.

Al varco poi, quand’anche ci fossero arrivati, li avrebbero tenuti ore per essere malamente perquisiti, nella migliore delle ipotesi, prima di convincersi che la sua Maryam fosse davvero sul punto di partorire.

Così si era rivolto a conoscenti delle Ong internazionali per ottenere un lasciapassare. Ci riuscirono, con i documenti falsi e con Maryam in quelle condizioni passarono. Ma, giusto il tempo di superare il varco, i dolori al ventre lasciarono presagire i tempi fossero maturi:  avrebbero dovuto cercare un riparo di fortuna dove avrebbero affrontato, anche nelle condizioni più disperate, la nascita.

Riuscirono a trovare un vecchio ricovero di pastori attrezzato alla meno peggio, e vi si infilarono. I pastori e i contadini delle campagne attorno offrirono il loro aiuto, portando coperte, cibo caldo, e quanto potevano rimediare. Quel bambino che veniva alla luce non era solo una vita che si faceva largo, ostinata, nelle ore buie del terrore e della disperazione, quanto il simbolo di rivalsa di un intero popolo che aveva solo la preghiera a Dio come speranza di riscatto e di pace.

E infine accadde. Yeshua venne alla luce la notte del 25 dicembre, proprio a ridosso del solstizio di inverno, quando la Natura ricomincia il ciclo dopo la morte dell’autunno. Ma al suo primo vagito la notte si illuminò del fuoco dei missili e delle bombe lanciati nella Striscia, nemmeno la supplica di una tregua era riuscita a fermare l’orrore.

Per quanto volesse dimostrare lucidità e fermezza Yosefa era in preda all’angoscia perchè un pastore del posto lo avvisò che Heroides, governatore sodale dei dominatori stranieri, era deciso a ingraziarsi l’Impero dei dominatori con un mostruoso omaggio, un tributo di sangue: lo sterminio sistematico dei bambini al di sotto dei tre anni, per spegnere da subito il rancore che avrebbe potuto generare futuri giovani ribelli a nutrire le fila del terrorismo.

Yosefa capì che non erano più al sicuro in quella capanna, come in nessun altro posto. Dovevano tenersi lontani dalle strade e dai luoghi più abitati. Mise la sua sposa stremata dal parto e il neonato avvolto nella lana su un asino abbandonato nei pressi della capanna e la notte stessa partì con loro nella colonna di profughi disperati in cerca di scampo.

Ma non fecero che qualche chilometro che alle prime luci dell’alba un F-351 si abbassò di quota con un rombo assordante e mitragliò la colonna di fuggitivi. Nel giro di qualche secondo la terra si rivoltò, si imbevve del sangue dei corpi martoriati e delle grida strazianti dei sopravvissuti.

L’aria intrisa di fumo, polvere e puzza di morte lentamente si diradò. Yosefa si riprese, si rialzò e gridando il nome della sua sposa, si aggirò fra i sopravvissuti cercandola.

La sua Maryam era viva, stava in ginocchio coperta di polvere, immobile, con gli occhi sbarrati, stringeva al petto il suo piccolo, Yeshua, esanime.

L’aereo di Heroides l’aveva colpito, dritto nel piccolo cuore, a spegnere il germoglio di vita in quell’inverno di morte. Non sarebbe mai cresciuto nessun Yeshua a riscattare il popolo dalle sue sofferenze e a offrire al mondo la speranza di una rinascita.

Nessun perdono per gli assassini della speranza, solo una rabbia cieca che ora, nelle migliaia di Maryam e Yosefa vittime in quella terra senza destino, non pretendeva più giustizia ma vendetta.

Come in quell’angolo di universo era, è e sarebbe stato in eterno, nei secoli dei secoli.

Amen.

Antonio Pizzola

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